Oggi come ieri, un fattore rilevante nella contesa fra le potenze imperialiste è costituito dal controllo delle materie prime e delle fonti di energia indispensabili per il funzionamento della macchina produttiva capitalista (petrolio). Questa lotta cinica per la conquista dei mercati è divenuta accanita in seguito ai mutamenti nel mercato mondiale a partire dall’inizio del ‘900 e caratterizzati dall’importanza acquisita dall’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, dal predominio del capitale finanziario in campo internazionale e dalla periodica ripartizione del mondo tra i grandi Stati. I mutamenti rispetto all’epoca del capitalismo concorrenziale, che Lenin definì come imperialismo, rientrano in una fase del capitalismo in cui prevale una struttura monopolistica della società. Il modo di produzione capitalista, nato nel XVI secolo con la creazione del mercato mondiale, si caratterizza per una legge intangibile: produrre per produrre.
Il petrolio è la materia prima da cui si ricava il cherosene da illuminazione e da riscaldamento. Solo con la I Guerra Mondiale sarà avvertita l’importanza strategica del petrolio come fonte di carburante per i motori terrestri, navali e aerei. Oggi con una quota dieci volte più grande, il petrolio è la prima fonte mondiale di energia.
Scrive Lenin:
«Uno dei tratti più caratteristici del capitalismo nella sua soglia imperialista è costituito dall’immenso incremento dell’industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più grandi. […] La concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione resta privata. […] I mezzi sociali di produzione restano proprietà privata di un ristretto numero di individui. Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile».
Dunque avviene una spartizione del mondo tra i grandi trust e le potenze imperiali.
Spiega Lenin:
«Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire. […]Nello stesso modo in cui i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al disopra del suo valore, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, temendo di rimanere indietro nella lotta forsennata per l’ultimo lembo di sfera terrestre non ancora diviso, o per una nuova spartizione dei territori già divisi».
In Africa è dagli anni ’50 che l’estrazioni di petrolio proseguono, ininterrottamente, sino a oggi. I principali Stati dove vi è una consistente produzione e riserva petrolifera sono: Libia, Nigeria, Egitto, Algeria, Senegal, Mali, Sudan, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale, Ghana, Gabon, Zambia, Camerun, Angola e Sudafrica (rentier state). L’Africa è l’unica area geografica ove la produzione di petrolio è quadruplicata negli ultimi quarant’anni. Approssimativamente il 20% del fabbisogno americano e il 25% del fabbisogno cinese arriva dall’Africa. L’intero continente consuma solo il 3,7% del petrolio mondiale.
Le grandi compagnie petrolifere (Shell, ENI, ExxonMobil, Halliburton, Agip, Chevron, BP, Total, PetroChina, ecc.) hanno incrementato i propri interessi predatori verso il petrolio africano per motivi come la posizione geografica dei molteplici giacimenti con conseguente riduzione dei costi di trasporto; i molti giacimenti offshore, poiché esentano dai problemi con le popolazioni locali e con possibili ingerenze politico‒militari; infine, la migliore qualità del petrolio africano, che riporta percentuali di solfuri considerevolmente minori rispetto a quello estratto in Medioriente.
In Africa si ha quindi uno scenario dove quasi tutti i costi delle attività estrattive sono sopportati dalle comunità locali, mentre tutti i vantaggi e la maggior parte dei profitti finiscono nelle mani di centri oligarchici. Un business che ha, come premessa e risultato, il controllo e lo sfruttamento delle risorse e delle materie prime di ben 44 dei 54 Stati africani. Oro, diamanti, petrolio e gas sono al centro di corruzione, guerre, colpi di stato, riciclaggio di denaro sporco e catastrofi ambientali (Delta del Niger, Parco dei Virunga, ecc.). Secondo una stima dell’ONU, circa 50 miliardi di dollari vengono inghiottiti ogni anno dai flussi finanziari illeciti che fanno capo a società offshore. Il 70% della popolazione africana vive con meno di 1 dollaro al giorno, un continente già abbondantemente martoriato da guerre civili, instabilità politica e regimi corrotti il cui scopo è garantire alle multinazionali il libero accesso allo sfruttamento delle materie prime in cambio del proprio arricchimento.
La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia (Texas italiano). Tutto ha avuto inizio nella seconda metà degli anni ’30 quando la neonata Agip cominciò a trivellare il territorio lucano senza che la miseria contadina ne traesse alcun beneficio. Nella regione italiana si estraggono il 70,6% del petrolio e il 14% del gas italiano, e copre l’8% del fabbisogno nazionale. Viggiano è oggi la capitale del petrolio italiano. Nel suo comune ricadono 20 dei 27 pozzi della Val d’Agri, nonché il Centro Oli dove il gas viene separato dalla parte liquida. Ogni giorno nelle viscere del paesino lucano viaggiano 3,4 milioni di metri cubi di gas e l’equivalente di 81.868 barili di petrolio (ogni barile contiene 159 litri).
Sono queste cifre a fare di questa valle il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale. La fiscalità sul valore delle estrazioni petrolifere della Val d’Agri è pari al 70%, circa Il 10% va alle istituzioni lucane (regione e comuni) e il resto allo Stato. Nonostante ciò la Basilicata è tra le regioni con il più basso tasso d’occupazione e di sviluppo economico. Le royalties date alla regione, insieme ai fondi strutturali europei, sono state impiegate in misura risibile e per finanziare progetti clientelari. A fronte d’introiti per 159 milioni d’euro negli ultimi anni, in Basilicata si è compiuto un autentico scempio dell’ambiente che ha interessato l’aria (inquinamento dagli impianti di desolforizzazione petrolifera, stoccaggio e estrazione, inceneritori, cementifici), il suolo (fanghi delle lavorazioni petrolifere, incidenti delle estrazioni, interramento rifiuti, acidificazione della Val d’Agri) e l’acqua, la vera ricchezza di cui dispone la regione, fonte di vita non solo per i suoi abitanti ma anche per i cittadini di altre regioni quali Puglia, Campania e Calabria, dipendenti dai suoi bacini idrici (Lago di Pietra del Pertusillo). Tra il 2011 e il 2014 il tasso di mortalità è cresciuto del 2%, nello stesso periodo nei pressi dei giacimenti petroliferi di Tempa Rossa è aumentato del 23%. Fra il 2006 e il 2013 il tasso di mortalità per malattie dell’apparato respiratorio è salito del 14% in tutta la regione. Nella provincia di Potenza il tasso di ospedalizzazione per tumore maligno è cresciuto del 48% fra il 2011 e il 2014.
La maledizione delle risorse. La Basilicata a dispetto di trenta anni di estrazioni è la regione più povera e sfruttata del Sud d’Italia. E sicuramente una tra le più malate. L’Africa è una terra che si dispera per la miseria, per le guerre, per l’imperialismo e per il mercato mondiale. Da questa lotta infernale, da questo consumo a oltranza di energia, da questa spirale incontrollabile di disperazione nella quale è precipitato il sistema capitalista, la maggioranza delle popolazioni non ha nulla da sperare se non massacri fratricidi, distruzioni, miseria, sofferenze e guerre imperialiste senza fine. Se la storia della Terra fosse paragonata a un calendario, l’uomo moderno sarebbe esistito per 23 minuti e avrebbe usato già un 1/3 delle risorse terrestri negli ultimi 0.2 secondi.
Scrive Lenin:
«Più il capitalismo è sviluppato, più la mancanza di materie prime si fa sentire, più la concorrenza e la ricerca delle fonti di materie prime in tutto il mondo è accanita, e più è brutale la lotta per il possesso delle colonie. […] Non potendosi fermare il ritmo d’inferno della accumulazione, questa umanità, parassita di se stessa, brucia e distrugge sopraprofitti e sopravalori in un girone di follia, e rende sempre più disagiate e insensate le sue condizioni di esistenza. L’accumulazione che la fece sapiente e potente la rende ora straziata e istupidita, fino a che non sarà dialetticamente capovolto il rapporto».
È necessario uccidere il capitalismo affinché l’umanità possa vivere.
Gianmario Sabini