Diversa la lingua, uguale il messaggio: giustizia per Mario Paciolla. Questa la richiesta al centro delle iniziative che, dall’Italia alla Colombia, sono state promosse per far luce sulla morte del giovane cooperante napoletano che ha perso la vita in circostanze ancora non del tutto chiare.
A più di due settimane di distanza da quel 15 luglio in cui fu ritrovato a San Vincente del Caguàn, in Colombia, il corpo senza vita di Mario, la risposta alle richieste di giustizia continua a restare unica e sola: il silenzio. Tacciono, o quasi, le Nazioni Unite, con le quali Mario Paciolla collaborava come volontario in un progetto mirato ad agevolare il processo di pacificazione tra ex guerriglieri delle Farc e lo Stato colombiano. Da parte dell’Onu, infatti, solo un breve comunicato stampa con cui l’Organizzazione manifesta rammarico e vicinanza alla famiglia di Mario. All’interno dello stesso, inoltre, si legge di un’indagine interna condotta in contemporanea a quella svolta dalle autorità colombiane per determinare la causa del decesso. A dispetto della volontà espressa, tuttavia, l’atteggiamento delle Nazioni Unite sembrerebbe ostacolare il raggiungimento della verità.
Secondo quanto riportato dal quotidiano colombiano El Espectador, che segue da vicino il caso, il 16 luglio – appena un giorno dopo il ritrovamento della salma di Mario Paciolla – una squadra dell’Unità di Investigazioni Speciali (SIU) del Dipartimento di Protezione e Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe prelevato gli effetti personali del giovane cooperante e restituito le chiavi di casa al proprietario. Quest’operazione, compiuta in assenza del Procuratore Generale della Colombia e dei funzionari della polizia giudiziaria, ha sottratto alle indagini materiale che si sarebbe potuto rivelare prezioso per ricostruire con precisione le circostanze in cui è deceduto il giovane napoletano.
Un ulteriore e allarmante particolare è quello relativo alla figura di Jaime Hernán Pedraza Liévano, capo dell’Unità Medica, che pur non essendo medico legale è stata la persona presente durante l’autopsia eseguita dall’Istituto di Medicina Legale. L’autorizzazione alla presenza di Pedraza è stata firmata dalla famiglia stessa di Mario Paciolla, alla quale fu erroneamente detto che si trattava di un medico forense assegnato dall’ambasciata italiana in Colombia.
A dispetto di errori e operazioni che appaiono – se non sospette – quantomeno poco chiare, una certezza c’è: la morte di Mario Paciolla non può considerarsi come un evento distinto dalle violenze strutturali che attraversano la Colombia, ma va inserito pienamente nel fallito processo di pace che – iniziato nel 2016 – ha posto ufficialmente fine a una guerra civile che per 52 anni ha martoriato un’intera popolazione, causando più di 260 mila vittime, oltre 80 mila desaparecidos e milioni di sfollati interni. Ma quella raggiunta con gli Accordi è una pace solo formale e il Paese continua a restare stretto nella morsa di una complessa rete di paramilitari, narcotrafficanti, organizzazioni criminali, gruppi armati, guerriglieri, imprenditori e politici collusi, che controllano la produzione e il traffico di cocaina, quello di armi e lo sfruttamento delle risorse naturali e del territorio.
A quattro anni di distanza dalla stipula degli Accordi, le organizzazioni internazionali denunciano che la situazione in Colombia si sta progressivamente deteriorando e che, come sempre accade in situazioni di precaria stabilità, a pagare il prezzo più alto è la società civile nonché gli esponenti delle popolazioni indigene, ultimo baluardo nella difesa del territorio, prima vittima sacrificale di ogni crisi. In un simile contesto, il lavoro di Mario Paciolla e di chi come lui si batte strenuamente per la difesa dei diritti umani assume una rilevanza a dir poco fondamentale.
Definire quello di Mario e degli altri difensori dei diritti umani solo un lavoro importante è tuttavia riduttivo: l’ultimo report realizzato da Indepaz, l’Istituto di Studi per lo Sviluppo e la Pace, certifica che dalla firma degli Accordi di pace al luglio 2020 sono stati uccisi più di 135 ex guerriglieri e 971 difensori e difensore dei diritti umani. Dati che restituiscono appieno la pericolosità dell’impegno umanitario in Colombia.
Un impegno scomodo, che in tanti cercano di ostacolare e che nessuna istituzione si impegna realmente a proteggere. Rispetto a questo tacciono le Nazioni Unite e, al momento, anche il governo colombiano. Chi non tace, invece, è l’Italia. «Come Stato non ci fermeremo dinanzi a niente» dice il Presidente della Camera, Roberto Fico, durante la commemorazione pubblica organizzata in onore di Mario Paciolla lo scorso 30 luglio. «Lavoreremo tutti quanti insieme» aggiunge il Ministro degli Esteri Di Maio «come istituzioni, come società civile, con gli amici, con la famiglia. Per ottenere verità su quello che è accaduto. Il lavoro che stiamo facendo in questi giorni è quello di chiedere, sia alle autorità colombiane sia alle Nazioni Unite, il massimo della collaborazione e della lealtà per sapere tutto quello che è accaduto». Parole lodevoli, che sembrano lasciare spazio alla speranza. Ma per poter realmente onore la memoria di Mario non è alla retorica della speranza che si deve ricorrere quanto, piuttosto, alla concretezza dei fatti. Quanto a fatti, però, l’incapacità del Governo – emersa nella recente e per nulla lodevole gestione del caso Regeni – rende facile pensare che Mario sarà l’ennesimo figlio d’Italia condannato all’oblio.
Virgilia De Cicco