OJ Simpson è di nuovo libero. Lo ha deciso la Commissione per la libertà condizionale presso il penitenziario di Lovelock, Nevada, nel quale era rinchiuso da 9 anni in seguito alla condanna a 33 anni di reclusione inflittagli nel 2008 dal Tribunale di Las Vegas per le accuse cumulative di rapina a mano armata, sequestro di persona ed associazione a delinquere. Considerando che la condanna prevedeva la possibilità per il reo di fruire della libertà condizionale dopo aver scontato almeno un terzo della pena, i giudici, data anche la buona condotta di OJ e l’assenza di precedenti condanne, hanno deciso di lasciarlo libero sulla parola, sottoponendolo, però, all’obbligo periodico di presentazione presso la stessa Commissione.
Era il settembre 2007 quando l’ex campione di football veniva arrestato dalla Polizia di Las Vegas per aver ideato e messo in atto, insieme ad altre quattro persone, una rapina a mano armata ai danni di due persone (poi prese in ostaggio) che alloggiavano all’interno di un hotel di Las Vegas, con lo scopo di recuperare alcuni cimeli sportivi che, a suo dire, gli appartenevano e gli erano stati sottratti in passato. Fu la seconda volta in cui Simpson si trovò implicato in prima persona in gravi vicende penali, che, come spesso accade negli Stati Uniti, suscitarono la grande curiosità del pubblico.
Eppure, il passato sportivo di Orenthal James Simpson non è per nulla paragonabile, né ha nulla in comune con il suo passato giudiziario: in 10 anni di carriera da professionista in NFL (1969-1979), ripartiti tra Buffalo Bills e San Francisco 49ers, si è distinto a suon di primati e di prestazioni memorabili, dal titolo di MVP riconosciutogli nel 1973, al record di primo giocatore nella storia della NFL a superare le 2000 yard di corsa in una regular season (precisamente, in 14 partite). Risultati individuali che, sebbene non accompagnati dalla vittoria, mai conquistata, del Super Bowl, gli valsero l’inserimento nella Hall of Fame del Football nel 1985, oltre che il celeberrimo nickname di “The Juice”.
Tuttavia, l’ammirazione che buona parte dell’America nutriva nei suoi confronti grazie alle superbe prestazioni sui campi di football presto si tramutò in odio quando, nel giugno 1994, i corpi della sua ex moglie Nicole Brown e del suo presunto amante Ronald Lyle Goodman, furono trovati senza vita nell’appartamento di lei, a Los Angeles. Da quel momento e tutt’oggi, Simpson rimane incredibilmente il principale indiziato dell’efferato omicidio, nonostante il processo penale a suo carico, com’è noto, si sia concluso con una sorprendente assoluzione a formula piena nell’ottobre 1995.
Quello a OJ Simpson fu senza dubbio il processo del secolo, fatto di colpi di scena e di aberrazioni procedurali, contornato da polemiche legate alla presunta discriminazione razziale e alla ingombranza della figura di uno sportivo famoso molto amato, e che ebbe come esito il più inaspettato dei risultati. Infatti, tutti gli indizi raccolti conducevano alla tesi della colpevolezza di Simpson, a partire dal guanto trovato in casa del giocatore all’esito di una perquisizione e corrispondente all’altro guanto insanguinato trovato sulla scena del crimine, passando per la testimonianza resa dal suo autista, fino alla folle tentata fuga in autostrada a bordo di un’auto con la polizia di L.A. alle calcagna (seguita in diretta TV da 95 milioni di telespettatori).
Senonché, il processo, oltre a svolgersi nelle aule di giustizia, si sviluppò in buona parte sui giornali e in Tv. L’opinione pubblica americana si divise fortemente tra giustizialisti e garantisti e, in particolare, due fattori incisero in maniera determinante sull’esito finale: da un lato, la importanza e la notorietà nel mondo dello Sport di OJ Simpson indussero taluno a ritenere che se la vicenda avesse avuto come protagonista un qualsiasi altro individuo, la condanna sarebbe arrivata presto e senza essere accompagnata da alcun clamore; dall’altro lato, il colore della pelle di OJ influenzò inevitabilmente il corso del processo, con la difesa che costruì gran parte della sua strategia sulle accuse di discriminazione razziale rivolte all’investigatore della Polizia di Los Angeles, Mark Fuhrman, che condusse l’indagine, e al pubblico ministero Marcia Clark.
Il caso Simpson venne interpretato come l’ennesimo episodio di ingiustificata persecuzione razziale ai danni di un cittadino americano di colore, incastrato dai soprusi, dalle angherie e dalle accuse pretestuose della Polizia bianca. Eppure, stante la iniziale incontrovertibilità delle prove a carico dell’imputato, poi smontata dalla furbizia della difesa e dalla inesperienza dell’accusa, il caso OJ Simpson, più che rappresentare un caso di discriminazione attuata in forma giudiziaria, non fu altro che una sorta di “abuso” della questione razziale: gli avvocati della difesa cavalcarono l’onda di un vero problema che da sempre aveva caratterizzato la società americana ed attirato l’attenzione di gran parte della opinione pubblica favorevole all’integrazione, facendo leva sul colore della pelle di OJ e sulle sue origini afroamericane, ed ottenendo lo strabiliante risultato di capovolgere l’esito ormai scontato del processo.
Si rispolverarono vecchie registrazioni audio contenenti frasi razziste del detective Fuhrman e si arrivò addirittura a sostenere che quest’ultimo avesse volutamente piazzato il guanto insanguinato sul luogo del delitto: sospetti di inquinamento delle prove ai quali l’accusa si sentì costretta a replicare, e ai quali fece seguito la memorabile scena in cui l’imputato viene invitato ad indossare in udienza i guanti rinvenuti che, con lo stupore del pubblico, si dimostrano troppo piccoli per la sua taglia (“if it doesn’t fit, you must acquit”, dichiarò uno dei suoi avvocati, anche se, a detta di taluno, OJ sospese volontariamente l’assunzione di anti infiammatori prescrittigli da tempo per un’artrosi alle mani, con il risultato di arrivare in udienza con le mani più gonfie; secondo altri, i guanti si sarebbero ristretti con il decorso del tempo a causa del caldo o dell’umidità).
Insomma, una vera e propria campagna di martirizzazione che ebbe come risultato l’assoluzione da parte di una giuria popolare composta a maggioranza da neri.
Ma, anteriormente al processo, OJ Simpson era davvero un sostenitore dell’integrazione e dei diritti civili degli afroamericani? In realtà, voci vicine alla sua persona ed esponenti dei movimenti per gli afroamericani rivelano che mai il campione di football si era espresso a favore del riconoscimento dei diritti o delle esigenze dei neri d’America, anzi, si racconta che fosse uno di coloro che, in seguito al contatto con la ricchezza e la notorietà, aveva fatto di tutto per distaccarsi dal popolo dei poveri per entrare a far parte di quello dei nobili, ricchi e famosi. Non poche erano le accuse di venduto (sellout) che gli venivano rivolte dalle comunità afroamericane, che in buona parte lo identificavano come un traditore.
Eppure, il processo penale e la farsa dei suoi legali finirono per trasformarlo in ciò che in realtà non era: un classico povero cittadino di colore che si trovava a dover fare i conti con la ingiusta giustizia americana. Ma, al contrario, furono la sua fama, la grandezza della sua figura pubblica e l’amore che il mondo dello sport nutriva nei suoi confronti – valori che non fanno esattamente capo a tutti i cittadini di colore “perseguitati dalla giustizia americana” – a garantirgli in buona parte l’assoluzione finale: si scoprì, tra le altre cose, che in passato precedenti denunce erano state presentate dalla ex moglie senza che ad esse avesse fatto seguito l’apertura di un’indagine da parte della Polizia. Justice for most, direbbe qualcuno.
Se poi si pensa che, poco tempo dopo, nel processo civile i parenti delle vittime, in maniera del tutto opposta a quanto accaduto in sede penale, riuscirono senza molte difficoltà ad ottenere un maxi risarcimento danni di più di 8 milioni di dollari da parte di OJ Simpson, allora le perplessità sin qui sollevate in ordine alla influente peculiarità della figura dell’imputato trovano un’ulteriore conferma e ci interrogano sulla reale necessità di intrecciare i vari campi della politica, della giustizia, dello stesso Sport, che, invece, andrebbero tenuti separati per via del possibile uso distorto e pretestuoso che potrebbe esserne fatto.
L’ironia del destino volle che, ben 13 anni dopo, The Juice si trovasse nuovamente coinvolto in riprovevoli vicende giudiziarie, con la folle notte dell’hotel di Las Vegas. Qualcuno ha interpretato la pesantissima condanna a 33 anni come una sorta di compensazione per quanto non gli era stato attribuito nel 1995, una specie di vendetta della Magistratura e di quella parte dell’opinione pubblica che sempre lo aveva ritenuto colpevole.
Adesso è nuovamente in libertà, dice di essersi riabilitato e di voler stare con i suoi figli, e spera che in qualche modo il pubblico possa tornare ad apprezzarlo come all’epoca delle sue performance sportive.
Amedeo Polichetti