Andare allo stadio per assistere ad una partita, usufruire dell’abbonamento alle pay-tv con il fine di godersi i migliori match del campionato, acquistare completini e magliette della propria squadra del cuore. Ed ancora, mettere su una società calcistica ed iscriversi ad un campionato dilettantistico, pagare le mensilità al personale amministrativo e ai calciatori, portare a termine operazioni di mercato. Tutti questi sono esempi di semplici, normali attività quotidiane che si ripetono con una tale frequenza ed in termini sempre più grandi da incidere in maniera determinante sulla crescita del Prodotto Interno Lordo del nostro Paese. Sono esempi di come il mondo del Calcio, spesso criticato, odiato, bersagliato, sia un importantissimo fattore di crescita per l’economia interna.

A confermarlo qualche mese fa fu un curioso, quanto innovativo ed apprezzabile, report realizzato dalla FIGC e presentato alla Camera dei Deputati, intitolato “Il conto economico del Calcio Italiano”. Lo studio, portato a termine con la collaborazione di una delle più importanti aziende di consulenza (Deloitte), rivelò in maniera ineccepibile l’incidenza dell’industria del pallone sull’andamento della situazione economica interna e, in particolar modo, sul PIL. A tal fine, oggetto dell’analisi furono i vari bilanci delle società di calcio professionistico ed i dati relativi all’organizzazione e allo svolgimento dei campionati dilettantistici e giovanili, il cui esame approfondito condusse ad un sorprendente outcome: la produzione complessiva del calcio italiano è di un valore di costo pari a 4 miliardi e 257,9 milioni di euro. Il 73% di tale ammontare (equivalente a 2,6 miliardi di euro) è merito dei campionati professionistici, che quindi più di tutti incidono sulla formazione dei costi, mentre il 21% (913 milioni di euro) è generato dal calcio dilettantistico o giovanile. La restante percentuale (pressoché 220 milioni) è conseguenza dei ricavi della FIGC e delle varie Leghe calcistiche. Le voci di costo più rilevanti sono quelle legate alle retribuzioni per calciatori, dirigenti, personale e agli oneri versati per le operazioni di mercato, oltre ad altre voci relative ad oneri finanziari ed imposte. Insomma, la conclusione cui giunse l’innovativo report finanziario fu la seguente: il Calcio contribuisce per un percentuale pari al 7% alla crescita del PIL.

Calcio

A ciò si aggiungono due importanti fattori: il primo è che l’industria Calcio concorre all’aumento dei redditi di famiglie ed imprese, in particolare per un ammontare totale di 22,5 miliardi di euro; il secondo è che il mondo del Pallone garantisce un’occupazione lavorativa (qualificata o non) a quasi 250 mila persone. Questo significa che le entrate fiscali di cui può beneficiare l’Erario grazie al mondo del Calcio ammontano a 9 miliardi annui.

Insomma, ciò che è possibile ricavare dall’analisi dello studio della FIGC è che lo stato italiano non può fare a meno del Calcio se vuole continuare a crescere e a rafforzarsi nel panorama economico internazionale. Ecco perché la mancata qualificazione ai Mondiali Russia 2018 ha avuto, e continuerà ad avere, un peso negativo sul nostro sistema economico. Studi parlano di un mancato guadagno che si aggira intorno ai 10 miliardi di euro, con annesse ricadute sul PIL. In effetti, un’estate senza Mondiale può avere ripercussioni molto più serie oltre al mero rammarico di non poter passare la giornata in compagnia di amici a tifare per la Nazionale, specie se discutiamo in termini economici. Per cominciare, i diritti tv sono stati venduti (a Mediaset e non, incredibilmente, alla TV pubblica) ad un pezzo pari a meno della metà rispetto a quello pattuito in occasione dei Mondiali in Sudafrica; inoltre, la FIGC ha dovuto rinunciare, almeno, a 1,2 milioni di bonus partecipazione, che sarebbero stati corrisposti dalla FIFA (senza contare che un eventuale passaggio del girone e, ipoteticamente, una vittoria finale della competizione avrebbero potuto fruttare dagli 8 ai 38 milioni). A ciò si aggiungono le perdite derivanti da piccoli dettagli legati ad azioni quotidiane molto comuni durante lo svolgimento della Coppa del Mondo: l’acquisto di magliette o di gadget forniti dallo sponsor ufficiale della Nazionale (Puma, che, peraltro, starebbe rivedendo i termini del contratto), e le scommesse sulle probabilità di vittoria degli azzurri. Inevitabilmente, entrambe le circostanze non si verificheranno, cosicché lo Stato dovrà rinunciare ad entrate considerevoli (le giocate sulle partite dell’Italia in Brasile erano state pari a 19 milioni). Infine, meritano un accenno anche i mancati introiti derivanti dagli acquisti di televisori (che, in occasione degli Europei del 2016, crebbero del 10% rispetto all’anno precedente), e i mancati incassi per bar, ristoranti, pub, anche se tale perdita non è del tutto certa, se si presume che gli italiani vogliano ugualmente assistere a tutta la competizione comodamente e/o in compagnia di una birra o di una pizza, nonostante la mancata partecipazione azzurra.

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Di contro, le scorse edizioni dei Mondiali, specie quelle conclusesi con il nostro trionfo finale, dimostrano che la partecipazione al Mondiale è sinonimo di crescita economica. Sia la vittoria del 1982 che quella del 2006 contribuirono ad un aumento del PIL, rispettivamente dello 0,7% e del 1,9%.

Insomma, dati che si pongono nettamente in contrasto con coloro che vedono nel Calcio nient’altro che un mezzo per riempire le tasche di dirigenti, calciatori e allenatori. Dati in contrasto anche con chi qualche anno fa, dall’alto della sua posizione di Governo, paventava la possibilità di uno stop di due-tre anni al Campionato di Calcio italiano, in seguito alla triste vicenda del Calcioscommesse. Quest’ultimo lamentava anche la diffusa pratica italiana di ripianare i debiti delle società con i soldi pubblici, come accaduto in occasione del famoso Decreto c.d. Salvacalcio, grazie al quale Inter e Milan su tutte riuscirono a riassestare la propria situazione finanziaria interna, in bilico dopo l’eccesso nell’attuazione della perversa pratica delle plusvalenze.

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La verità è che, fermo restando che lo Stato dovrebbe evitare di intervenire nell’economia con il solo fine di sostenere le società dominanti o tiranno, dovrebbe, al contrario, puntare sullo sviluppo di tutti i club, specie una volta accertato il loro impatto positivo sul PIL. Bisognerebbe fare in modo che la Serie A diventi un campionato modello da esportare nel mondo, e che le società di calcio diventino ancor di più volano di crescita e di rafforzamento economico del Paese: evitando di alterare la concorrenza e di configurare forme di aiuto economico proibite a livello comunitario, lo Stato potrebbe provvedere ad agevolare indirettamente le loro condizioni di sviluppare, mettendole in condizione di costruire attorno alla propria squadra un piccolo sistema economico che contribuirebbe oltremodo alla crescita interna del Paese. Inutile menzionare il solito esempio della Juventus, e cioè di un club che, con la sua struttura sportiva di proprietà e locali commerciali adiacenti (oltre agli sponsor e alla campagna di marketing) è riuscito a distinguersi nel panorama internazionale, posizionandosi, grazie anche ai continui successi, tra le società calcistiche più solide nel contesto economico mondiale. Ebbene, se lo Stato sostenesse ed agevolasse tutti gli altri club, non solo quelli professionistici, nello sviluppo di un proprio sistema economico (come, tra l’altro, accade in Inghilterra), l’impatto per l’economia nazionale, grazie anche al verosimile apporto di investitori esteri, sarebbe più che positivo.

Non ci resta che attendere, dunque, una riforma a livello legislativo che si renda conto dell’importanza del sistema Calcio e agisca al fine di valorizzarne l’incidenza sulla crescita interna.

Amedeo Polichetti

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