Così come ogni tipologia e ogni genere letterario è stato oggetto di derisione e di parodie, anche il testamento è diventato nei secoli fonte e spunto di satira e di divertimento, a partire dall’età tardo antica fino ai giorni nostri. Nel lungo Medioevo, i maggiori esponenti del genere del testamento burlesco furono Rutebeuf e François Villon.
Il testamento burlesco nel Medioevo
Il testamento parodico o burlesco è una tipologia letteraria in cui il testante può essere incarnato da un uomo o da un animale che sul punto di morte, dopo aver subito una condanna o un processo, emana le proprie ultime volontà. Il testamento burlesco è una satira alla canonica disposizione testamentaria che solitamente era impiegata da ceti nobiliari e illustri: ovviamente si tratta di un genere tipicamente popolare che tende a parodiare non solo i contenuti dei testamenti, ma anche le forme, il lessico e la retorica.
Nel testamento burlesco medievale vengono svelati gli ideali materiali e le voglie corporee del testante che andavano contro l’etica e la morale cattolica vigente in quegli anni bui e confusi: non mancano riferimenti sessuali che vanno oltre ogni retorica del sentimento, carichi di violenza espressiva e di critica pungente nei riguardi delle istituzioni ecclesiastiche.
Rutebeuf, il menestrello della miseria
Nel Medioevo, oltre ai grandi poeti di cui abbiamo grandi testimonianze, emersero strambe figure tra cui i menestrelli e i giullari. Nella Parigi del XIII secolo emerse il menestrello Rutebeuf che si differenziava da tutti gli altri per la sua concezione di modernità e per il suo strepitoso talento.
Nella vastissima produzione del menestrello emergono alcune opere che contengono una vera e propria parodia del testamento. Una di queste è “Le Testament de l’asne”, un fabliaux in cui si narra la storia di come un vescovo di condotta onesta punisca un prete corrotto e disonesto che ha come unico scopo di vita quello di arricchirsi personalmente traendo guadagno dalla propria parrocchia.
Il testamento si apre con una riflessione sugli uomini invidiosi: chi bada ad arricchirsi non può, dal punto meramente cristiano, essere considerato un esempio da seguire. La parodia del testamento di Rutebeuf risiede tutta nella retorica usata dal menestrello: mettere alla berlina il comportamento di uomini che si proclamano sinceri e leali e soprattutto non propensi alla corruzione, ma in realtà di fronte alla concretezza materiale del denaro non stentano a prendere soldi.
Il tema del testamento burlesco serve a Rutebeuf a porre l’accento sulla corruzione che caratterizzava la curia dei suoi tempi: ne viene fuori una chiesa avara e corrotta con l’unico scopo di arricchirsi e di considerare importanti i beni materiali.
Tra i poemi della disgrazia del menestrello, tra i più famosi è da ricordare “Le complainte Rutebeuf”: narrando le tristi sventure che lo perseguitano da tutta una vita (come ad esempio l’aver sposato una donna brutta e priva di fascino, i debiti, la perdita di un occhio e l’abbandono di tutti i suoi amici), Rutebeuf compiange se stesso ed è consapevole del fatto che tutte queste sventure siano l’eredità delle cattiverie e dei misfatti compiuti in precedenza. Ma la parodia risiede tutta negli ultimi versi: ai suoi amici che lo hanno abbandonato lascia in eredità le fogne, simbolo di bassezza e di degrado.
Il Lais e il Testament di François Villon
Nella Parigi del 1431 nacque François Villon, autore poliedrico e noto per due opere che rientrano nella tipologia del testamento burlesco: il “Lais” e il “Testament”.
Il “Lais”, o anche “Petit testament”, è una parodia in chiave goliardica del codice cortese in cui il poeta, fingendo di dover lasciare Parigi a causa di una delusione d’amore, utilizza lo stratagemma metaletterario del testamento che viene lasciato ad amici e parenti per mostrare le proprie qualità stilistiche. Il “Lais” ha tutti gli elementi per risultare una parodia della canonica disposizione testamentaria: basti pensare che Villon lascia in eredità la sua reputazione, il suo cuore misero, morto e ghiacciato, le sue brache, i guanti, un cappone e un’oca grassa.
In questo piccolo testamento burlesco, François Villon dona davvero tutto ciò che possiede: lo fa con tono satirico, critico, divertente e perfettamente il linea con il suo essere, alternando toni alti a toni bassi e talvolta osceni.
Nel “Testament”, Villon non fa altro che predisporre la propria sepoltura prima di lasciare il mondo terreno: la forma dell’opera è insieme morale e burlesca, artificiosa e autentica e il lettore cerca invano il limite tra verità e finzione. François Villon si contraddice, si mostra e si maschera, medita e insulta, sconvolge con riso e con parodia un mondo che gli pare assurdo. Il suo è un atteggiamento patetico e provocatorio allo stesso tempo e obbliga il lettore a cercare con lui quella verità che li accomuna.
L’opera viene concepita da Villon come un vero e proprio lascito testamentario, come una donazione della parola: a coglierne la bellezza e questa peculiarità è il “trovatore genovese” Fabrizio De Andrè che nella sua canzone dal titolo “Testamento” ricalca la straordinarietà dell’opera villoniana.
Arianna Spezzaferro