Il giornalismo è in crisi e non è una novità. Sono tanti gli esempi di testate storiche costrette a chiudere o a fare tagli importanti al personale o alle proprie piattaforme (recente e clamorsa quella annunciata da l’Espresso).
E chi lo fa, un po’ per deresponsabilizzarsi, un po’ per palese inadeguatezza, punta prontamente il dito contro il web, quel cosmo infinito ed estremamente concorrenziale in grado di contendere il campo all’informazione ufficiale. Parliamo di blogging, giornalismo cittadino, realtà ormai consacrate del nostro mondo, dove anche il salumiere sottocasa può acquistare un dominio e diffondere notizie come un qualunque giornale nazionale.
La domanda che subito ci accompagna al nocciolo della questione è:
Sono giuste le recriminazioni da parte del giornalismo professionale?
No, chiaramente, o almeno non sussistono se queste diventano uno specchietto per le allodole per nascondere tutti i problemi che la stampa nostrana si porta dietro da anni.
Proviamo a ricostruire: questa crisi di sistema parte da lontano; da una parte la specificità tutta italiana fatta di partigianeria, collateralismo politico e informazione inquinata che ha messo in discussione quell’autentico impegno civico e super partes che avrebbe dovuto distinguere l’informazione professionale. Ciò ha creato sfiducia nel potenziale lettore e minato la credibilità di numerose realtà editoriali anche di un certo blasone.
Dall’altra parte la rete, che lungi dall’essere scevra da questa dipendenza, offriva comunque con blog e portali d’informazione (spesso generati da iniziative degli utenti stessi) un’offerta molto più vasta, in tempo reale, e soprattutto gratuita, unendo il lato informativo a quello licenzioso del pettegolezzo, potendo godere di molte più libertà editoriali.
Un punto storico, cruciale, di sfida, dove il giornalismo era chiamato a reinventarsi, magari facendo leva proprio su quella professionalità di cui si fregiava già allora.
Ma invece di distinguersi, invece di perseverare nella distanza tra loro e gli altri,
i giornali si son piegati rassegnatamente alle logiche dell’audience (e del click, della pubblicità) della nuova marea digitale, delll’infotainment, ovvero dell’informazione che punta più a intrattenere (e trattenere) il lettore che a informarlo. E da lì il click bait fatto di titoli sensazionalistici o farlocchi, il mare di fake news, il trash come stile.
Il giornalismo, insomma, cambia genetica.
In questo contesto non può sopravvivere senza il ritorno pubblicitario. Del digitale assume il tone of voice, inizia a trapiantare nei propri ranghi personaggi nati dalla rete, in molti casi il peggio che essa possa offrire, frutto di un bias spettacolaristico e comunicazionale del contemporaneo dove gode di più spazio chi strepita di più e, per forza di cose, cattura l’attenzione e quindi il click.
“il click come feticcio” dicevamo.
Qualche esempio:
Selvaggia Lucarelli, con il Il Fatto Quotidiano che le ha aperto le porte del suo giornale.
Non si discute la penna della blogger, la sua capacità di storytelling (non che sia una qualità rara nel nostro mondo), bensì il suo modo polemico di fare notizia. Una penna incandescente, una lingua corrosiva che ha sempre un’apostrofe per tutte. Note, infatti, sono le sue abilià di alzare polveroni ad hoc al fine di far parlare sé (in una logica costruita a tavolino di personal branding).
Stiamo parlando di una finta paladina della verità e dei più deboli, dell’informazione e del buon costume, della lotta contro gli hater in salsa femminista, che più che suffragare le denunce di una categoria le banalizza. Le banalizza perché c’è uno scarto tra il suo modo di pensare e il suo modo di agire. Da paladina delle donne, come dicevamo, cita un blog con un video privato di Belen Rodriguez, dando la showgirl in pasto a quel tipo di sciacallaggio maschilista che tanto combatte. Le va dato atto che successivamento ha anche fatto un pubblico mea culpa, ma questo lungi dal mettere fine a quel suo atteggiamento altezzoso di chi vuole insegnare sempre agli altri qualcosa, porre dei limiti alla decenza e alla morale, salvo superarli in prima persona ogni volta.
Ma il giornalismo d’oggi non si esaurisce con la Lucarelli.
Pensiamo allo stimato Roberto Saviano, faro dell’anticamorra e celebre per il suo romanzo Gomorra e le relative operazioni di denuncia.
Altrettanto noto per aver collaborato per l’Espresso (toh!) e Repubblica. Anche in lui notiamo quella mania impenitente di dire sempre l’ultima parola su ogni questione, in questo ritmo frenetico da social dipendenza, tradendo una naturale – e a volte comica – insipienza di chi ha lacune imbarazzanti in diversi settori, senza che questo gli impedisca di bacchettare il prossimo o dire la sua anche su argomenti a lui oscuri: politica, economia, magistratura, carbonara. Una forma ‘alta’ di disinformazione (stiamo parlando comunque di una personalità che gode di un certo credito) dato che lo scrittore ha influenze su ampie maglie del pubblico. La colpa di tutto ciò? Di chi gli dà spazio e lo interpella su questioni che non dovrebbero competergli e alimentano a dismisura il suo ego. Peccato che a farlo sia spesso la stampa nazionale, ufficiale, tradizionale, registrata.
Questo tralasciando la questione morale, dato che lo stesso Saviano da sostenitore della verità, della trasparenza, è stato condannato per aver copiato alcuni articoli presenti nel suo libro Gomorra e chiamato a risarcire Simone Di Meo per plagio.
Ma il virus del giornalismo non si ferma certo alla carta stampata. Pensiamo a Le Iene, il programma televisivo da anni in onda su Mediaset. Anche loro, partiti come paladini della verità e della giustizia, bravi a beccare sempre qualcuno o qualcosa con le mani nel sacco, si sono trasformati, in breve, da contenitore giornalistico al passo con i tempi (attenti al branding, alla loro mission e all’identità editoriale) a segugi di piste vuote e propugnatori di fake news (pensiamo al fenomeno Blue Whale, Stamina, la gogna preventiva al regista Fausto Brizzi) in barba alla deontologia e ogni corretta informazione, dando adito a quella forma mentis miope e facilona.
Certo, non tutto il giornalismo ufficiale ha preso questa piega.
C’è una grande fetta di realtà che è rimasta immobile, non adeguandosi ai tempi che corrono, fornendo spesso un’informazione telegrafica, verticale, perché fatta come un lavoro e non con un vero senso di responsabilità.
E per tutto ciò, il giornalismo tradizionale fa i conti con questa crisi generalizzata e nega la sua correità nella situazione. Dà la colpa al digitale, alle nuove realtà online, ree di aver costretto a una guerra fra poveri, fra giornalisti e pseudo giornalisti, il mondo dell’informazione.
Un fondo di verità c’è in questa accusa.
Ma sopra c’è molto, molto di più.
Enrico Ciccarelli