Tutto è cominciato lo scorso 24 novembre, con l’abbattimento di un jet russo in territorio turco. Da lì sono iniziate reciproche accuse tra il presidente della Russia Vladimir Putin e quello turco Recep Tayyip Erdoğan: il primo aveva detto chiaramente che la Turchia si sarebbe pentita, accusandola poi di trafficare petrolio con lo Stato Islamico, ed è di queste ore il ribaltamento di tale accusa da parte di Erdoğan.
Sono state dure le parole dello “zar” Putin circa la perdita dei due soldati a bordo del Su-24, abbattuto da due F16 turchi. Nel recente discorso alla nazione, ha detto «Non dimenticheremo ciò che è accaduto. La leadership turca è responsabile per la morte dei militari russi in Siria» in concomitanza con l’annuncio del ministro dell’energia Novak di sospendere i negoziati per il gasdotto russo-turco Turkish Stream, precisando che la questione della costruzione della prima centrale nucleare turca resta aperta. Invece, il consigliere presidenziale per la cooperazione tecnico-militare Vladimir Kozhin ha comunicato la fornitura all’Iran (Paese attualmente in tensione con la Turchia) di sistemi di difesa anti aerea S-300.
Ed è di qualche giorno fa la conferenza stampa alla quale il viceministro della Difesa in Russia Anatoli Antonov ha accusato la Turchia, precisamente la famiglia Erdoğan e le più alte autorità politiche, di essere coinvolta nel business criminale del traffico illecito del petrolio proveniente dai territori attualmente occupati dallo Stato Islamico, per un ritorno economico di due miliardi di dollari all’anno.
Il vice capo di Stato maggiore russo, Serghiei Rudskoi, ha anche aggiunto che la Russia avrebbe trovato tre percorsi attraverso i quali il petrolio giungerebbe in Turchia: «Sono state individuate tre rotte principali per il trasporto del petrolio verso il territorio turco dalle zone controllate dalle formazioni dei banditi in Siria e in Iraq». Rudskoi ha poi sottolineato i risultati dell’intervento militare russo in Siria, grazie al quale i proventi di questo business sarebbero stati dimezzati da tre milioni a un milione e mezzo al giorno, spiegando che «Negli ultimi due mesi in seguito ai raid dell’aviazione russa sono stati distrutti 32 raffinerie di petrolio, 11 impianti petrolchimici, 23 complessi per il pompaggio del petrolio e 1.080 autocisterne».
A tali accuse, non si è fatta attendere la risposta di Erdoğan: «Nessuno può lanciare calunnie contro la Turchia sull’acquisto di petrolio dall’organizzazione terroristica Daesh. Nel momento in cui potranno provarlo mi dimetterò, come dovrebbero fare quelli che non possono provare le loro accuse».
Anche il commento del Pentagono è stato abbastanza repentino, il cui portavoce Steve Warren si è rifiutato di credere alle accuse provenienti dalla Russia definendole «assurde» poiché «La Turchia partecipa attivamente ai raid della coalizione contro i jihadisti».
Federico Rossi