I cent’anni di Fellini e l’immortalità di un maestro
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Federico_Fellini_I_clown.jpg

Cent’anni dalla nascita dell’immortale maestro: Federico Fellini ha cambiato la storia del cinema, eppure le sue opere non sono state esenti da aspre critiche.

«Felliniano… avevo sempre sognato da grande di fare l’aggettivo!»

Il regista è stato tante cose: il bugiardo visionario, il genio, il creatore di universi onirici e autobiografici, la fantasia e l’irrequietezza. Tratti così caratteristici da delineare un percorso unico, felliniano.

L’impatto e l’influenza delle opere di Fellini sulla cultura cinematografica mondiale oggi sono indiscussi: capace di condizionare l’immaginario collettivo con termini come “vitelloni” e “paparazzi” entrati di prepotenza nel linguaggio comune. Candidato ben 12 volte al Premio Oscar, nel 1993 gli è stato conferito l’Oscar alla Carriera. Ha vinto due volte il Festival di Mosca, la Palma d’Oro al Festival di Cannes e il Leone d’oro alla Carriera alla Mostra del Cinema di Venezia.

Appare, quindi, difficile credere che la sua carriera non sia stata costellata di soli successi. Eppure, a Fellini, oggi considerato tra i più grandi registi mai esistiti, sono state mosse critiche così feroci che se non fosse stato un uomo di tanta risolutezza avrebbe probabilmente cambiato mestiere. Sicuramente il suo modo di fare cinema era innovativo e originale, visionario per quell’Italia che usciva dal dopoguerra. L’estro di Fellini si manifestava in tutto il processo di creazione dell’opera; già dai casting emergeva prepotentemente la sua eccentricità, mentre cercava il dettaglio, quella particolarità quasi caricaturale che rendeva ogni suo personaggio lontano da qualsiasi stereotipo: «La Volpina dev’essere un gatto, io voglio un gatto!»

Riminese di nascita, Fellini si trasferisce fin da ragazzino a Roma. Vive di stenti e della sua verve creativa: fumettista, giornalista, sceneggiatore. Si avvicina al cinema neorealista collaborando alla sceneggiatura di “Roma, città aperta” e poi a quella di “Paisà”.

Poi la svolta: Alberto Lattuada gli chiede di collaborare alla regia di “Luci di Varietà”. Nel film l’esperienza neorealistica si fonde con la caratterizzazione surrealista. Fu quello l’inizio di una carriera registica costellata di successi e critiche, che avrebbe portato il cinema italiano all’apice del successo.

Ma come nasce un capolavoro di Fellini?

La storiella che Fellini si divertiva a raccontare ai giornalisti era sempre la stessa, un copione già scritto che distoglieva per un attimo l’attenzione dal soggetto delle sue opere; un film era l’insieme di suggestioni improvvise, di momenti rubati al quotidiano, un viaggio che si componeva in fieri. Sì, perché Fellini si vantava di arrivare sul set senza copione, ma solo con un canovaccio.

Costretto per forza di cose a fare quel film, frutto di un condizionamento imposto dal vile Dio Denaro.

«…è sempre quella rispostina lì, che ripeterò ancora una volta. Firmo un contratto, prendo l’anticipo e poi non voglio restituirlo. E mi tocca fare il film.».

Ma quanta verità c’è in questo? Il regista, si sa, era un ben noto bugiardo. Ma come direbbe Giulietta Masina, moglie e compagnia di una vita: «è bugiardo, perché la bugia per lui non è bugia. La bugia per lui è fantasia. È un vedere quello che gli altri non riescono a vedere».

La bugia è, dunque, parte integrante della poetica felliniana, quella trance al sogno, dove gli elementi biografici si uniscono a quelli onirici.

Il peggior regista al mondo dirige l’attentato alla nazione: Fellini e La Dolce Vita

Le critiche iniziarono fin da subito, quando Fellini si mise per la prima volta da solo dietro la macchina da presa, in quello che fu un disastro al botteghino: «un film talmente scadente per grossolanità di gusto, deficienze narrative, convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello.» (Nino Ghelli). Oggi “Lo Sceicco Bianco” fa parte dei 100 film italiani da salvare.

Poi fu la volta di “La Strada”, film con il quale Fellini vinse addirittura l’Oscar al miglior film straniero: «…non si è reso conto nell’involucro della sua decantata solitudine, di aver portato, con questo suo film, l’attacco più a fondo, dall’interno, al realismo cinematografico italiano. E per realismo intendiamo umanità, solidarietà, affetto e interesse per la vita, senso di responsabilità nel contribuire, con l’arte, alla comprensione dei nostri simili» (Ugo Casiraghi)

La Strada” è il primo film della trilogia dei poveri e degli umili, insieme a “Le Notti di Cabiria”, che gli valse un altro Oscar, e “Il Bidone”, forse il più bistrattato tra tutti i suoi film. L’opera fu snobbata dal pubblico e stroncata senza pietà dalle critiche: «L’assurdità della trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati si sommano in un’opera totalmente mancata. Che è tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della cinematografia» (così ne parlò Umberto Barbaro).

E se l’immagine immortale di Anita Ekberg che fa il bagno nella Fontana di Trevi testimonia la portata iconica de “La Dolce Vita” nell’immaginario collettivo, appare difficile credere all’ondata di critiche che hanno accolto il film.

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Fonte: https://www.turismo.it/cultura/articolo/art/roma-e-la-dolce-vita-i-segreti-della-scena-pi-iconica-di-sempre-id-21121/

“La Dolce Vita” racconta il degrado inesorabile di Roma e dell’Italia in contrapposizione al benessere economico. Quando fu presentato, Fellini ricevette critiche e fischi (sull’Editoriale del Secolo d’Italia il film fu accusato di essere un attentato alla nazione): a Milano volò addirittura lo sputacchio.

«Un tale mi ha sputato sul collo e quando mi sono voltato mi ha gridato in faccia: “Si vergoni! Si vergogni! E un altro, un bel tipo coi capelli argentei e l’aria marziale, battendo i tacchi, e facendo un lieve inchino, ha urlato: è una cosa indegna!»

Ciononostante, il film diventa il maggiore successo di pubblico nella storia del cinema italiano e vince una Palma d’Oro a Cannes.

Poi arriva “8 ½” e Fellini ha perso l’ispirazione: non ha una storia, non ha dei personaggi, non ha neanche il titolo. Eppure, riesce a tirar fuori da un ammasso di idee vaghe e confuse il suo capolavoro. Il suo “ottavo film e mezzo”, considerati quelli co-diretti.

Proprio la confusione spiana la strada al racconto e il film si crea dà sé: racconterà di un regista che deve fare un film ma ha perso l’ispirazione. Ed ecco che in quel Guido Anselmi, l’artista perso, c’è più Fellini che mai, con tutte le sue paure e le sue bugie.

Marcello Mastroianni diventa il suo alter ego perfetto: porta sullo schermo il regista con i suoi dubbi, alla ricerca disperata di uno spiraglio, di una salvezza. Ma la parabola è ben più ampia: non è solo la storia di un artista che ha perso l’ispirazione, ma di un uomo che ha perso la strada, che tenta, ma non riesce ad aggrapparsi a quel sorriso angelico di ragazza, che lo può far rinascere, che gli ridà vita e lui la rifiuta.

Ma non c’è salvezza, finché rimangono le scuse.

Lo sottolinea la bella Claudia, col tono canzonatorio di quel «perché non sa voler bene» e quello sorriso che sembra contenere tutte le certezze del mondo, ripetendo l’unica verità evidente. Sono solo bugie quelle che si racconta Guido.

La profondità di Fellini è tutta lì: in quel discorso in cui svela e riconosce i limiti per bocca della donna, regalando una delle scene più indimenticabili della storia del cinema.

«Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo? Di scegliere una cosa, una cosa sola ed essere fedele a quella? Riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto e che diventi tutto proprio perché la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Ne saresti capace?»

Se assumiamo come vero che il compito dell’artista e di chi vuole fare cinema è anche quello di rovesciare i canoni correnti, di riuscire a vedere al di là e di anticipare i tempi, il rovescio della medaglia sembra inevitabile. Essere diversi, essere visionari, può senza dubbio portar ad essere incompresi, criticati. Ma il tempo passa e le critiche sputate come sentenze sono spesso sbugiardate.

Perché com’è che si dice? Ai posteri l’ardua sentenza.

Vanessa Vaia

Vanessa Vaia
Vanessa Vaia nasce a Santa Maria Capua Vetere il 20/07/93. Dopo aver conseguito il diploma al Liceo Classico, si iscrive a "Scienze e Tecnologie della comunicazione" all'università la Sapienza di Roma. Si laurea con una tesi sulle nuove pratiche di narrazione e fruizione delle serie televisive "Game of Series".

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