Si dice che la speranza sia l’ultima a morire. E allora, se è vero, proprio questo dovrebbe essere il fine ultimo della specie umana: sopravvivere alla speranza. No, non provo un sentimento di ostilità nei confronti della speranza, ma mi chiedo se talvolta la sua funzione non sia sopravvalutata. Di speranza parla anche l’ultimo rapporto dell’Ipcc che, ricordiamolo, è il foro scientifico più importante e prestigioso a livello mondiale che si occupa di cambiamenti climatici. Nel suo ultimo rapporto di sintesi – arrivato a conclusione di un lavoro pubblicato in tre sezioni principali da agosto 2021 ad aprile 2022 – il Gruppo intergovernativo ha infatti dichiarato che esistono «opzioni multiple, fattibili ed efficaci» per scongiurare gli effetti più devastanti della crisi climatica. Per dirla in altri termini, quindi, malgrado il pianeta stia andando incontro a una catastrofe senza precedenti è ancora possibile invertire la rotta. Ergo, c’è speranza.
Ogni tanto una buona notizia, verrebbe da dire, ma siamo sicuri che sia davvero così? Mi spiego meglio: essere ancora in tempo a contenere il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi così come previsto dall’Accordo di Parigi è certamente una buona notizia, ma siamo sicuri che sarà affidandoci a un sentimento come la speranza che potremo raggiungere quest’obiettivo? Se sperare presuppone attendere fiduciosamente che qualcosa si verifichi, allora supereremo assai velocemente la soglia oltre la quale molti degli impatti della crisi climatica diventeranno irreversibili.
E anche se mezzo grado in più può sembrare poca cosa, gli scenari che si aprirebbero con un aumento della temperatura di 2° C rispetto ai livelli preindustriali si rivelerebbero molto più critici di quelli che sarebbero provocati da un aumento di 1,5. Come l’Ipcc non ha mai smesso di ribadire, infatti, ogni frazione di grado ha un’importanza enorme e può tradursi in eventi climatici estremi di un’intensità e di una frequenza tale da impedire agli esseri umani di riuscire ad adattarsi: ondate di calore, malattie infettive e carestie potrebbero mietere milioni di vittime già entro la fine del secolo. Per impedire che ciò accada – per salvare noi stessi e il nostro pianeta – è quindi imprescindibile ridurre in modo sostanziale l’uso dei combustibili fossili.
Ma per farlo non possiamo affidarci alla speranza che multinazionali e infrastrutture smettano di punto in bianco di bruciare combustibili fossili o che la politica smetta di essere collusa con l’industria del fossile. D’altra parte, questa non è certo la prima volta in cui l’Ipcc ammonisce sulla necessità e l’urgenza di ridurre la nostra dipendenza dalle fonti fossili, sebbene – secondo l’ultimo rapporto di sintesi – la finestra temporale a nostra disposizione si sta notevolmente riducendo. Ecco perché il report esorta i governi di tutto il mondo a riformare i sistemi di trasporto, al pari di quelli industriali ed energetici, in modo che per tutti gli individui sia più facile e più economico avere accesso a opzioni a basse emissioni di carbonio.
Tuttavia, i governi ai quali si rivolge il report sono gli stessi che durante i negoziati svoltisi a Interlaken (Svizzera) – dove la sintesi finale del sesto rapporto dell’Ipcc è stata presentata pubblicamente – hanno cercato di annacquare il contenuto del messaggio che essi stessi avrebbero dovuto recepire di fronte all’opinione pubblica. Come denunciato da Earth Negotiations Bullettin, i cui membri sono stati gli unici osservatori esterni ammessi a partecipare ai lavori, i rappresentanti di molti governi hanno cercato di smorzare i toni impiegati all’interno del report.
Così, ad esempio, la Cina – che prevede di far crescere le proprie emissioni fino al 2030 – ha esercitato pressioni affinché si eliminassero le parti riferite alla necessità di ridurre del 60% le emissioni di gas serra e del 65% quelle di CO2 nel 2035, rispetto ai livelli del 2019, così da avere una possibilità su due di contenere l’aumento delle temperature a +1,5°C. Ma se i governanti (non solo, ovviamente, quelli cinesi) considerano la soglia limite di +1,5 come una cifra politica o, peggio, come un numero negoziabile che si può far apparire o scomparire dai report climatici a proprio piacimento, allora abbiamo un problema e pure bello grosso.
Ecco perché, per restituire agli 1,5 gradi la dimensione di «confine planetario» oltre il quale non è possibile andare, occorre mettersi in azione. Riempire le piazze, mostrare solidarietà agli attivisti, schierarsi a fianco delle popolazioni indigene, pretendere un’informazione di qualità che non definisca come fenomeni metereologici quelle che sono manifestazioni della crisi climatica. Ma, più di tutto, occorre trovare il coraggio di rinunciare alla confortevole placidità che caratterizza il nostro atteggiamento e deriva dalla speranza di avere ancora tempo per salvare il pianeta. Tempo che non sarà sprecato solo facendo spazio all’inquietudine, scomoda e fastidiosa, che ci impone di barattare una possibilità di salvezza con la messa in discussione del nostro stesso stile di vita.
Virgilia De Cicco