Trump notifica all’ONU l’attivazione del ritiro dall’Accordo di Parigi firmato nel 2015, mentre dall’altra parte del mondo Macron e Xi siglano un patto “irreversibile”. Uno dei principali attori responsabili del cambiamento climatico rinuncia alla sfida globale per la costruzione di una società sostenibile, come se fosse una scelta, come se la spada di Damocle fosse capace di distinguere sul capo di chi pendere. Ci restano neppure 12 anni: o si coglie il momento o ci si dirige tutti verso l’estinzione.
Gli USA fuori dalla COP21
Nel non troppo lontano 2015, la Convenzione quadro siglata nell’ambito delle Nazioni Unite, con una negoziazione tra i 194 Stati facenti parte dell’Organizzazione più l’Unione Europea, poneva nero su bianco l’impegno nella riduzione delle emissioni di gas serra a partire dal 2020. All’approssimarsi di quella scadenza, nello storico momento in cui i sottoscriventi stanno predisponendo misure per far fronte alle sfide globali del nostro tempo, tra cui la sesta estinzione di massa, gli Stati Uniti hanno deciso di ritirare il proprio impegno a supporto della causa.
Gli USA possono adesso distinguersi formalmente nel mancato sostegno a una causa comune verso lo sviluppo sostenibile in risposta al cambiamento climatico. Obama, originario firmatario dell’accordo, non ha fatto tardare il rammarico per la decisione del suo successore: «L’amministrazione Trump si sta unendo a una piccola manciata di nazioni che rifiutano il futuro». Pare che non sia dello stesso avviso il segretario di Stato Mike Pompeo, che con un tweet aveva descritto gli USA come “leader mondiale nella riduzione di tutte le emissioni, nella promozione della resilienza, nella crescita dell’economia e nella garanzia energetica per tutti i cittadini” – quindi, de facto, liberi di rinunciare agli impegni climatici e dire addio all’Accordo di Parigi.
Ne era convinto già nel 2017 il capo del comitato internazionale del Consiglio Federale della Confederazione Russa, Konstantin Kosachev: «Se si considerano gli altri progetti della campagna elettorale, come la normalizzazione dei rapporti con la Russia, il siluramento degli accordi sul programma nucleare dell’Iran, la fine dell’Obamacare o la costruzione del muro al confine con il Messico, l’accordo sul clima è l’ultimo che resta a Trump per far vedere la sua indipendenza», e l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali ha soltanto accompagnato il processo.
La stretta di mano tra Parigi e Pechino
La strategia della Casa Bianca, tuttavia, è molto più ampia e vede l’applicazione di tutte le misure necessarie ad agevolare lo snellimento burocratico, a favore della crescita dell’industria americana, in un mondo in cui, secondo Trump, le acque e l’aria non sono mai state così pulite. L’accordo della COP21 si vede privata del secondo inquinatore mondiale, in una situazione in cui il suo ritiro rischia di rendere inefficace e insufficiente l’impegno di tutti gli altri sottoscriventi, producendo un vantaggio competitivo in capo agli USA, soprattutto rispetto al rivale cinese, che a poco conterà in caso di estinzione del genere umano.
La COP21 prevedeva un rilancio a cadenza quinquennale delle azioni, considerando gli obiettivi raggiunti, i possibili adeguamenti in seno ai Parlamenti nazionali, le rassicurazioni richieste dalla società civile e la riduzione dei costi. In molti pensavano che il tutto sarebbe entrato in vigore nel 2020, invece, grazie alle alte aspettative sul tema, l’Accordo di Parigi ha visto un’accelerazione del processo di ratifica e firma. Come ha osservato la portavoce della Commissione europea Mina Andreeva: «Per noi l’uscita di uno dei principali partner non cambia niente, perché tutti gli altri restano impegnati e andiamo avanti col lavoro per la Cop25 di Madrid», per rassicurare le preoccupazioni di centinaia di ricercatori che continuano a notificare alle forze politiche il rischio di estinzione.
Lo scorso 6 novembre, intanto, Macron e Xi hanno firmato un documento che stabilisce l’irreversibilità dell’accordo. Per gli USA le porte restano aperte, ma adesso la responsabilità è nelle mani degli elettori. Per gli USA il processo si concluderà il 2 novembre 2020; ciò significa che il prossimo presidente eletto potrà rientrare nell’accordo non appena diventerà effettivo il passaggio di consegne a gennaio 2021.
Cogliere il momento per non dirigersi verso l’estinzione
L’Accordo di Parigi chiaramente andrà avanti, funzionerà e introdurrà in ogni Stato misure specifiche per rendere effettivo l’impegno di ciascuno nei confronti di un fenomeno di tale portata, quale è il cambiamento climatico. Si può andare avanti senza gli USA, qui come in qualsiasi altro contesto, uscendo dalla retorica che gli Stati Uniti siano garanti del mondo: l’isolamento, nel mondo globale, non esiste e non è proficuo. C’è da dire che, tuttavia, sarà più difficile fare l’analisi dei risultati raggiunti al netto degli sforzi se uno dei principali attori dell’inquinamento decide di non prendere parte alla sfida.
Il Partito Democratico dovrebbe pensarci su e infierire, nei prossimi mesi, nell’avvicendarsi della campagna elettorale, giacché dinanzi all’opposizione si dispiega una strada allettante: la proposta di reintroduzione di tutto ciò che è stato abolito, ritirato o concluso dall’amministrazione Trump. L’alternativa a Trump è schierarsi apertamente a favore delle generazioni future, del destino dell’umanità tutta, contro l’élite, l’industria e la tradizione dell’uomo bianco occidentale. Così facendo si potrebbe pensare di competere, offrendo alle persone qualcosa in cui credere e per cui combattere. In caso contrario, l’estinzione sarà lo scenario più dignitoso a cui potremo aspirare.
Sara C. Santoriello