Era il 2006 quando Paolo Rumiz, con zaino in spalla e scarpe ben allacciate, intraprese il viaggio che lo avrebbe condotto “dalla Liguria alle porte della Sicilia, lungo la spina dorsale del nostro Paese“. L’anno successivo usciva la prima edizione de “La leggenda dei monti naviganti”, un testo che riavvolgeva e romanzava le avventure del giornalista triestino lungo lo stivale italiano: la sezione dedita alle Alpi riproponeva le memorie del 2003, quella interessata agli Appennini svelava il cuore pulsante d’Italia, talento segreto. Un racconto, tante storie diverse, chilometri e chilometri di realtà sconosciute, con una forte essenza ma senza volto. Dopo undici anni, l’occhio del regista Alessandro Scillitani fa luce su sentieri battuti con ancora tanto da dire. “Ritorno sui monti naviganti” (documentario dalla durata di 70′) segna un passaggio di testimone e di sensi: dalla parola scritta alle immagini, dall’astrattismo concreto di una pagina alla documentazione fedele di una telecamera.

La prima collaborazione tra Rumiz e il regista risale al 2011 quando viene prodotto “Le dimore del vento“, un docufilm tratto dalle pubblicazioni del giornalista su La Repubblica nell’appuntamento “La casa degli spiriti“. È come sempre un viaggio della memoria e della riesumazione. La ricerca aveva preso vita nel 2001 e ha condotto i lettori attraverso miti sfatati e case abbandonate, non-luoghi ed edifici dimenticati, storia e dimore vissute ma ormai visitate solo dal vento e abitate dagli spiriti.

Alessandro Scillitani, regista e fondatore nel 2013 della società di produzione Artemide Film, ha risposto alle nostre domande e curiosità.

“Appennino il cuore segreto” è il diario di bordo pubblicato da Rumiz su La Repubblica. “La leggenda dei monti naviganti” è una ridefinizione dei suoi articoli sotto forma di libro. Quale è stato l’approccio al suo lavoro e quanto difficile la resa in filmato delle sue parole scritte?

«Lo stesso Rumiz, già dalla prima collaborazione, si è trovato in corto circuito e davanti alla domanda “Cosa fare?”. Fino a quel momento aveva raccontato scrivendo, lui che tanto ama il racconto orale. La letteratura, il diario necessitano in qualche modo di un tradimento; la memoria deve essere tradita.»

Per poi essere tràdita, dal verbo latino tradĕre (trans + dare): è un dare (anticamente, in ambito militare, il vendere o vendersi ai nemici), una vera e propria consegna che supera logiche e confini e che, incontrandosi con la scrittura, varca spazio e tempo entrando di diritto nel concetto di memoria e trasmissione.

«Quindi anche trans-itare, passare. Nel viaggio dunque è forse intrinseco il tradimento: evidentemente è necessario trasformare quanto si è visto per enfatizzare e spiegare meglio l’oggettività di ciò a cui si è assistito. Paolo Rumiz è un viaggiatore serio e onesto: lui racconta fedelmente. Ho incontrato dei ragazzi di Palestrina che ogni anno ripropongono un pezzo dei monti naviganti: loro raccontano quanto siano rimasti colpiti dalla perfezione di certi racconti, dalla forza visionaria ed immaginifica della penna di Paolo che riesce a descrivere persino le curve che ha percorso con la sua Topolino, esattamente come appaiono. Da un lato Rumiz è reale e vero; dall’altro, la scrittura consente questi tradimenti che non significano trasfigurare la realtà, mentire ma fornire una spiegazione immediata. Paolo registra con il taccuino, prende nota e gli appunti sono fatti inevitabilmente di ciò che si sta vivendo ma anche di memoria, di congetture e pensieri che arricchiscono il racconto. Tutto questo a sua volta poteva essere tradito dalla telecamera. Un tradimento altro. Più grave: la telecamera costringe all’oggettività. La paura di Paolo Rumiz era proprio che la mia presenza potesse alterare il magico dei suoi racconti. Ed era anche la mia.»

Lecita. E come l’avete vinta?

«Chiaramente dai viaggi con Paolo così come dalle mie esperienze precedenti ho recepito l’esigenza, che ho fatto tanto mia, di non invadere il campo con l’obiettivo. Di rendere il racconto sincero ed autentico, di raccogliere le storie così come accadono e non di trasformarle. In ogni caso, il mio camminargli accanto è sempre stato un prediligere strumenti leggeri, senza fonici né tecnici al seguito. Far sì che la mia macchina fotografica, un microfono, il monopiede (o un braccio stabilizzato per le riprese in movimento) traducessero l’essenzialità del gesto della scrittura, del prendere gli appunti sul taccuino. Il mio approccio è questo: molto leggero, rispettoso del mondo e quindi compatibile.»

Rumiz Scillitani monti naviganti ritorno
Il regista Alessandro Scillitani

Ritorno sui monti naviganti. Perché?

«La leggenda dei monti naviganti come libro è pazzesco. Sentivo l’esigenza di rifarlo prima di tutto perché è il racconto totemico di Rumiz, la storia di Nerina, il più noto dei suoi scritti e in quanto tale li contiene tutti. Questo è il primo caso in cui si può parlare di un secondo viaggio. Il film si snoda su vari livelli: il primo è evocativo, in cui Rumiz non è presente pur restando la voce narrante. È la fase del recupero delle persone incontrate da Paolo nel primo viaggio, alle quali ho chiesto di ricordare l’incontro. Il secondo è quello del viaggio nuovo, per alcuni tratti fatto a piedi o con altri mezzi. Per me Nerina resta un emblema ma anche il simbolo del passaggio dall’antico verso quel moderno che distrugge la poesia e promuove la velocità. Per fortuna lo fa a piccoli passi: è sì una macchina ma è un’auto che non va forte, che ti costringe ad andare piano e quindi diventa occasione di incontri.»

Come avete incontrato i vostri interlocutori? E che differenze avete riscontrato a distanza di anni?

«Non voleva essere un semplice revival. L’idea era di raccontare l’Appennino oggi, a passo lento e di farlo in modo rumiziano ma con un percorso nuovo. Stesso mood ma non necessariamente le stesse storie. Quando ci si mette in cammino, capitano e si congiungono eventi in modo del tutto imprevedibile ma straordinariamente logico.»

Il piano delle coincidenze, spiega l’autore, muove in due direzioni: lungo una programmata e preintenzionale staffetta o su una serie di fortuiti eventi, come pedine toccate da un inarrestabile effetto domino. È il caso di Reneuzzi, la città fantasma in provincia di Alessandria, solo citata nel libro di Rumiz ma particolarmente interessante agli occhi di Scillitani che aveva cominciato la sua indagine a riguardo in “Case abbandonate” (2011). Incredibilmente, si è poi rivelata essere un tassello fondamentale per il tema dello spopolamento appenninico e dell’abbandono della vita contadina.

«Mistero e malinconia potrebbero fare coppia con la parola “lamentela”(battezzata da Vinicio Capossela durante “Il Cammino dell’Appia Antica” del 2015). Raccontare gli abbandoni, i fiumi, la perdita della memoria coincide spesso con una lamentela. L’Italia è piena di lamentele e di indignazione verso l’approccio alla salvaguardia del passato. Noi allora abbiamo ricercato quanto ancora c’è di bello (come sul Po, che Paolo ha personificato al femminile e trasformato in protagonista di un mondo ignorato). Questa estrema difesa dell’Italia minore, quella lontana dai riflettori eppure straordinaria, il guardare in positivo è quanto io ho raccolto. Ripartiamo da Reneuzzi, il luogo dell’abbandono e simbolo di questa grande cesura tra antico e moderno. E, sulla falsa riga del gioco che Rumiz fece con Nerina, sono andato alla ricerca delle rinascite, delle resistenze, dei ritorni. Ritorno sui monti naviganti è ovviamente un doppio senso: non solo un ritorno sulle orme di Paolo Rumiz ma anche un ritorno alla vita sulla montagna. Senza troppa enfasi, so benissimo essere una visione parziale: accanto a tante storie ben presenti di abbandoni, ne ho però trovate tante di rinascita. Andiamo a raccontare quelle.»

Una collaborazione che ha vinto lo scetticismo, un’amicizia lunga chilometri, memorie tradite così da essere tràdite e “per la stessa ragione del viaggio viaggiare”.

Pamela Valerio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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