Lo scrittore e drammaturgo inglese Samuel Beckett nell’ottobre del 1969, mentre era in vacanza in Tunisia, viene insignito del premio Nobel per la letteratura. Il titolo gli valse per come, in Aspettando Godot, sia riuscito ad imprimere se stesso, i suoi dubbi e le sue paure, creando un’opera teatrale che pretende di rappresentare il nulla, il rien a faire e costruendo un’enorme parodia sull’inutilità dell’azione umana. Il nostro ineluttabile destino che si affaccia ciclicamente nel tempo infinito dell’azione divina, si concretizza qui con parole vane che non hanno alcun obiettivo, labirinti semantici che percorrono anguste strade retoriche e delineano sfondi in cui a predominare sono le grandi metafore religiose e quelle della realtà economica e politica contemporanea.
Il capolavoro di Beckett ha rapito il pubblico con la sua ironia e la sua inettitudine, in un mondo di attese anche la letteratura si perde nella disperata ricerca di una soluzione.
Solitamente, per tali ragioni, “Aspettando Godot” è l’opera che i più conoscono e affibbiano a Samuel Beckett, senza però tener conto di perdersi un campionario di creazioni che raccolgono tutti i tormenti del nostro premio Nobel.
Gli ingredienti tipici di Beckett provengono dalla corrente letteraria modernista, della quale si riconosce una scrittura intesa e reinterpretata come un flusso di pensieri, spesso soffocante, dalle tinte purgatoriali dantesche.
Il romanzo è cambiato da quando la concezione dello scorrere del tempo è stata rivoluzionata da Bergson e i grandi autori come Proust, Joyce, Pirandello, Mann hanno iniziato ad imprimere nero su bianco l’inconscio dell’uomo, la distanza che esiste tra la nostra vita e la natura, la perdita delle illusioni e la volontà di recuperare quel tempo che sembra scorrere, imperturbabile e inarrestabile, dalle nostre mani.
Dopo esser stato a Parigi, Beckett decide che sarà il francese la lingua della sua scrittura, traduce così il suo romanzo “Murphy” dall’inglese, ottenendo come risultato una lingua finale media e sporca per far nascere un personaggio letterario che è piena rappresentazione della sua idea del mondo.
La composizione di Murphy ci appare quasi cinematografica e così i capitoli stessi sono definiti tramite dei numeri scritti a parole, come se l’autore voglia suggerirci l’idea del movimento, del continuo cambiamento di uno scenario. Su questo palco i personaggi appaiono come dei fantocci, vuoti e freddi, tranne il protagonista che risulta essere psicologicamente complesso e dettagliato, farcito di tutte quelle conoscenze sull’inconscio che Beckett stava apprendendo dal suo medico (non a caso in molti ipotizzano che Murphy sia la rappresentazione del suo psicologo).
Il messaggio dell’opera è l’ansia che si collega alla paura di vivere: la vita di Murphy non è degna di essere vissuta, è un’esistenza priva di qualità. Il suo involucro è la sedia a dondolo che lo ripara dallo scorrere del tempo. Da questo suo rifugio suda, compie movimenti limitati, riesce a sentire la strada quasi come se la stesse realmente vivendo in prima persona. Murphy è un vero e proprio outsider, non fa parte di nulla, non ha alcun posto nella società e l’unica cosa che gli procura piacere è lo star seduto sulla sua sedia. È sottoposto a un vero dualismo tra corpo e anima: far stare bene l’uno riesce a dar piacere anche all’altro. L’inettitudine di Murphy lo porta a non riuscire neanche a perdere quando lo desidera.
In una casa di cura per anziani (luogo in cui lavora) inizia una partita di scacchi con un paziente con l’intenzione di farlo vincere per rallegrargli la giornata o anche solo per terminarla in fretta. Con una rottura dello schema narrativo, Beckett ci propone una tabella che riporta tutti i risultati e tutte le mosse, con tanto di note che pretendono di argomentare una partita lenta e senza alcuna risoluzione. Murphy non riesce a perdere, ciclicamente compiono sempre le stesse mosse, finiscono in parità. Tutti i gesti e le azioni del protagonista sembrano esser fatti per caso, così è la sua vita e così sarà la sua morte, non c’è alcun piano, alcun obiettivo e di sicuro nessuna decisione dietro alla sua esistenza.
Si tratta di una parodia del romanzo, messa in atto con una scrittura che sfocia nell’iperrealismo mimetico, che come una moviola segue i lenti movimenti del corpo.
La paura di entrare a far parte delle complicate trame sociali e tutto il senso di inadeguatezza che ne può scaturire è anche il tema di Film, un cortometraggio del 1964, diretto da Alan Schneider su sceneggiatura di Samuel Beckett. Questo contributo al grande schermo ci racconta i tormenti di un uomo senza nome, sconosciuto e che non si rivolgerà mai allo spettatore né a qualsiasi altra persona.
Per strada inizia a sentirsi soffocare, disperato perché si sente gli occhi di tutti i passanti addosso e si nasconde, camminando contro i muri, nascosto dietro le pareti e le scale, cercando disperatamente di tornare a casa al più presto. Ma neanche lì sarà al sicuro: ci sono occhi ovunque.
I suoni animali domestici lo fissano, così il vicinato dalla finestra, un disegno che ha in esposizione, le foto della sua infanzia, la sua stessa sedia ha come decorazione un occhio intagliato e poi c’è lo specchio e l’occhio della telecamera. Il protagonista distrugge e copre tutto, ci dà le spalle ma non trova pace perché in realtà sta cercando di sfuggire da una sola persona: se stesso.
Beckett ancora una volta riesce ad amplificare il dolore e l’angoscia, l’ansia sociale e la frustrazione, il non accettarsi, l’odiarsi, il tormento, e questa volta lo fa senza l’utilizzo dell’ironia, ma usando una grossa lente che mostra tutto il dolore che può esistere in un’anima che si sente nuda e vulnerabile.
Alessia Sicuro