«Chi legge non vuol davvero credere che Beckett sia veramente tutto lì, si aspetta che da un momento all’altro la sua mano scenda a raccogliere d’un sol colpo tutte le carte sparse».
Così Carlo Fruttero commenta “Aspettando Gogot”, il testo di Samuel Beckett compreso nella raccolta “Collezioni di teatro” .
Effettivamente il lettore (o lo spettatore) che si ritrova davanti quest’opera è sovrastato da innumerevoli quesiti e spera che almeno sul finale Beckett metta da parte l’ambiguità, il continuo gioco di detto-non detto e ponga finalmente termine ad un’attesa che dura per due interi atti.
Ma ciò non accade.
Il lettore è pervaso da una sensazione di confusione, davanti ad un’opera teatrale che si svolge in un tempo congelato, fuori dallo spazio, in cui a far da protagonista è l’oggettivizzazione dell’assurdo e l’eco assordante della voce e del riso di Beckett, che si prende gioco di noi da dietro le quinte.
L’opera, statica e che prende forma nella sua instabilità ed inconsistenza, ha come prima battuta «Rien à faire», niente da fare, un niente che prenderà corpo e diventerà così ingombrante da far entrare tutti in confusione, per primi gli stessi personaggi che danno vita a tratti ad una piena in consistenza, ad altri ad importanti e pregnanti tematiche.
Estragone e Vladimiro sono due mendicanti che, in aperta campagna, aspettano un certo Godot, un uomo che non hanno mai visto, ma che sembra possa migliorare per sempre le loro vite. Per due volte saranno raggiunti da Pozzo e Lucky, un ricco castellano e il suo servitore portato a guinzaglio, con i quali si intrattengono divagando con discorsi ambigui e spesso destinati a non avere una conclusione.
All’apice c’è una forte incomprensione tra i quattro, che sembrano costantemente non capirsi e non ascoltarsi, così da riempire interi spazi con parole destinate a non portare a nulla, che il lettore segue, per poi perdersi nel loro continuo farneticare.
L’ambientazione vasta e desolata, l’albero sempre presente sullo sfondo e i continui riferimenti alla morte, alla vita e alle Sacre Scritture ogni qual volta che i personaggi lo ricordano, hanno mosso la critica ad identificare Godot con Dio, un Messia dalla barba bianca che l’umanità insignificante e perduta aspetta ed evoca. Ancora, il rapporto tra il viziato e violento Pozzo con il suo servitore Lucky (ridotto ad una svilente descrizione animalesca, che lo porta a comunicare solo tramite un tipo di approccio primitivo ed infantile), per altri giustifica una lettura in chiave sociale, che vede Pozzo come il forte capitalista, pronto a maltrattare e a sfruttare il misero proletario.
Poco importa.
Beckett usa l’humor come strumento per raggiungere una buona fetta di spettatori, un mezzo che però non riesce a sostenere una malinconia e un senso di irrisorietà e di instabilità che aleggia in tutta l’opera, gli stessi che albergano nell’animo umano, e proprio questo ci spinge ad andare oltre e ad indagare sulle allusioni che ad ogni parola e ad ogni pausa i personaggi di “Aspettando Godot” vogliono suggerirci.
Beckett dubita di tutto, alla maniera dei suoi predecessori cerca di comprendere i perché del mondo, per farlo indaga se stesso, ma non trova alcuna soluzione. Così si perde e decide di non cercare più e di mostrare a tutti il suo prodotto: una caricatura dell’introspezione in cui tutto sembra possibile ma tutto non è realizzabile e alla fine ad emergere è solo la piccolezza umana, destinata ad attendere chissà cosa, chissà per quanto, chissà con chi, chissà perché. A questo punto nulla ha significato, né le parole, né il tempo, né le azioni, né le persone con cui si condividono le proprie giornate. Tutti sono presi da se stessi, le voci degli altri spesso arrivano ovattate e non hanno importanza né i desideri, né le passioni, né le richieste, né gli atti di bontà gratuita. L’instabilità umana è disegnata in un tempo statico, nella stabilità dell’attesa eterna, che potrebbe sempre mutarsi nell’arrivo di qualcuno o qualcosa che potrà cambiarci finalmente la vita.
L’instabilità è stata percorsa nel tema dell’attesa già prima, nel 1925, da Franz Kafka. In un romanzo costruito da ambientazioni chiuse e claustrofobiche (contrarie alle ariose e sconfinate di Beckett), l’uomo disilluso de “Il Processo” è davanti ad un guardiano, con la richiesta di entrare nella legge. La legge dovrebbe essere accessibile a tutti e l’uomo di campagna fa numerosi tentativi per entrare, stancando il guardiano con tutte le sue domande, senza mai ottenere un esito positivo. Ma quella era la sua porta, la sua giustizia. In fin di vita l’uomo è ancora lì, in attesa, ma ormai sconfitto, quando la porta viene definitivamente chiusa: nessun altro poteva entrare lì, perché quell’ingresso era riservato solo a lui.
L’instabilità è nell’inettitudine e nell’autoconvinzione di fare abbastanza, nel relegare le proprie attività agli altri e a non interessarsi abbastanza della propria vita.
L’instabilità sta nell’accontentarsi e nel vivere a metà, nel non scoprire se stessi e nel non tentare neanche di farlo.
L’instabilità è l’attesa e la sfumatura di grigio che aleggia e non definisce mai abbastanza ciò che ci circonda, è il ridursi a semplici postulanti e il ridurre un giorno come tutti gli altri, è Beckett con il suo costante funambolismo e Kafka con quel mancato coraggio che non gli ha permesso di conoscere ciò che gli spettava.
Alessia Sicuro