È notizia recente che Donald Trump ha dato il via libera alle trivellazioni in Alaska per la multinazionale Eni, interrotte nel 2015 dal governo Obama il quale impedì di continuare i lavori di estrazione alla società anglo-olandese Shell.
L’Alaska è stata sempre meta ambita per le trivellazioni possedendo della quantità ingenti al di sotto delle acque tanto da essere definita “riserva di petrolio e di gas”. L’ecosistema di questo luogo, a causa della morfologia fisica e della posizione geografica, è fragile e vive un costante rischio ambientale che negli ultimi decenni è stato seriamente messo in pericolo.
Proprio in questi luoghi si sono perpetrare numerose stragi petrolifere: basti ricordare quella 4 marzo del 1989, quando l’Alaska venne devastata dalla petroliera Exxon Valdez che riversò nel mare 42 milioni di litri di greggio, provocando una delle peggiori catastrofi ambientali della storia. Il petrolio uccise più di 250mila uccelli, migliaia di balene e altri animali marini causando un danno all’ecosistema irreparabile. Sono dati sconcertanti, che non hanno impedito a Trump di mettersi in azione nonostante le critiche ricevute da tutti i fronti.
Contro le politiche ambientali scellerate del presidente americano, e molte altre decisioni avventate ed irresponsabili, sono nate numerose iniziative come la Trump Forest, promossa da tre attivisti ambientali: Taylor, Price e Willis. Questo progetto è nato in Nuova Zelanda e ha lo scopo di piantare 10 mld di alberi in tutto il mondo come segno di protesta alla politica ambientale del presidente, che punta sulle energie fossili e non rinnovabili riportando l’economia e l’equilibro ambientale indietro nel tempo. Progetto decisivo anche per sensibilizzare verso la riforestazione globale rinvigorendo le foreste che vengono decimate ogni giorno, indisturbatamente, per ragioni differenti e limitare le emissioni di CO2 in continuo incremento.
Le trivellazioni da parte della società Eni potrebbero cominciare già da gennaio 2018. La zona scelta per cominciare i lavori è Spy Island un’isola artificiale di ghiaia a cinque chilometri dalla costa nord dell’Alaska nel Mar Glaciale Artico. Numerose associazioni ambientaliste di tutto il mondo si sono opposte a questi lavori, in particolare Greenpeace che da anni cerca di diffondere la pericolosità di queste attività per l’ambiente e per l’economia e di orientare i governi verso l’utilizzo di forme di energia alternative.
Greenpeace, attraverso le sue campagne, sprona cittadini e uomini d’affari ad orientarsi verso fonti d’energia rinnovabili e sostenibili in quanto l’estrazione di petrolio risulta vantaggioso solo per una piccola percentuale di economia mondiale, essa è una risorsa limitata che danneggia le acque e la biodiversità che vive in esse. Queste azioni spingono ancor più velocemente il clima mondiale verso un tracollo estremamente pericoloso per la fauna e la flora che vive in prossimità di questi luoghi.
Emblematiche al riguardo sono state le parole del portavoce Greenpeace in USA: “Questa è una decisione inaspettata visto che non c’è nulla di responsabile nell’incoraggiare l’esatrazione di quel petrolio che sta causando lo scioglimento dell’Artico, per di più in condizione estreme e rischiose. Tra l’altro è altamente improbabile che da questi nuovi pozzi si possa produrre petrolio in breve tempo”.
Negli ultimi decenni hanno destato scalpore i continui disastri petroliferi causati dallo sversamento nei mari, in maniera casuale o voluta. Ricordiamo ciò che accadde lungo le coste della Grecia nel 2017 o il disastro della Deepwater Horizon, piattaforma che sommerse le coste del Golfo del Messico di petrolio.
Per avviare le trivellazioni, Eni ha progettato quattro pozzi esplorativi lungo la costa nord dell’Alaska: ciò creerebbe circa 150 posti di lavoro nella regione e 20.000 barili di petrolio al giorno, un profitto molto elevato, ma ad un prezzo carissimo a discapito delle acque e della fauna selvatica artica costiera, spingendo la situazione verso un baratro sempre più profondo.
Nicoletta Crescenzo