Ad ogni nuovo attentato terroristico o tragedia di migranti morti in mare lei è lì, dietro l’angolo, ti guarda e tu la guardi: è la pornografia del dolore. Che si incarna nella foto di quel bambino siriano rimbalzata sui social network o in quella dei cadaveri della strage di Nizza.

Non si tratta di un argomento nuovo. La pornografia del dolore è sempre esistita ed è da sempre strettamente intrecciata al giornalismo. E adesso la sua forza si è amplificata con l’avvento dei social network.

Cos’è la pornografia del dolore?

In un certo senso, pornografia del dolore significa trarre godimento dal dolore.

La naturale pulsione dell’uomo per la morte e la violenza, questa sorta di voyeurismo macabro, porta l’uomo ad essere attratto da spettacoli di morte. È per questo che spesso non ci esimiamo dal guardare immagini cruente (nonostante il “potrebbero urtare la vostra sensibilità”) e, anzi, spesso ne rimaniamo ipnotizzati.

Già i termini stessi dicono molto: pornografia e dolore, laddove pornografia richiama un piacere erotico e dolore un evento luttuoso.

Ma cosa c’entra la pornografia del dolore con i social network e con il giornalismo?

Si può dire che fin da sempre il giornalismo si è posto questo problema, sia nella sua forma scritta ma soprattutto in quella visiva: fino a che punto mi posso spingere?

Quand’è che una foto, per quanto cruenta, può essere pubblicata e quando questa diventa violenza gratuita, voyeurismo della morte, pornografia del dolore?

In questo senso, ci sono foto che hanno fatto la storia e che non potrebbero non essere state pubblicate. Foto che per quanto brutali avevano quel qualcosa in più. Basti ricordare la foto scattata da Nick Ut ad una bambina colpita dal napalm durante la guerra in Vietnam.

pornografia del dolore
Foto scattata dopo un attacco al napalm a Trang Bang, vicino Saigon, Vietam. Fotografo: Nick Ut.

Non a caso, l’articolo 8 del Codice deontologico dei giornalisti sancisce la rilevanza sociale come principio cardine cui appellarsi per dirimere la questione:

«Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine.»

È dunque dovere dei giornalisti scandire questa fondamentale differenza. Proprio per non alimentare una pornografia del dolore fine a sé stessa.

E allora, i social network?

In tutto questo, i social network hanno acquisito un’importanza fondamentale. Se la pornografia del dolore è sempre esistita e la televisione ne è stata in qualche modo sua paladina (già dai tempi dell’omicidio di Sarah Scazzi, sulla cui vita privata si indugiava dettagliatamente e insensatamente), si può dire che i social network siano diventati il suo principale regno di diffusione.

Sui social network le immagini rimbalzano ad una velocità allucinante: messe in rete da pagine e giornalisti, condivisibili e condivise con un paio di click.

Se la prima responsabilità è di chi opera nel campo della comunicazione, subito dopo veniamo noi. Anche noi ci facciamo ‘giornalisti’, responsabili di qualcosa seppur inconsapevoli.

E se questo mostro della pornografia del dolore si nutre di sé stesso, si alimenta in maniera direttamente proporzionale alla sua diffusione, possiamo immaginare bene l’effetto che ha sui social network. Basti pensare al funzionamento degli algoritmi di Facebook, dove più un’immagine è condivisa, più quest’ultima avrà possibilità di diffondersi e crescere in rete.

Ma non si tratta di moralismo. Le immagini hanno una forza che noi dobbiamo essere in grado di governare: è davvero necessario vedere le foto di corpi annegati per comprendere la tragedia di 200 migranti morti in mare? È così necessario mostrare il dolore dei genitori che hanno perso una figlia?

Questa spettacolarizzazione della morte, infatti, ci ha resi sempre più assuefatti a scene del genere. E sempre più ne chiediamo.

Per non dire, poi, che tutto questo provoca un appiattimento generale dell’informazione: l’immagine diventa fine a sé stessa e non veicola altro messaggio all’infuori di sé. Cosa significa?

Significa che sarò in grado di emozionarmi di fronte alla foto di un bambino siriano che fugge dalla guerra, ma che non andrò ad approfondire le cause, le dinamiche e le complessità di quella guerra stessa.

Significa, anche, che spesso mi accontenterò di un’immagine al posto di un racconto e di nient’altro, assecondando narrazioni stereotipate o parziali.

Significa, paradossalmente, che quell’immagine ha perso di significato, giornalisticamente parlando: forte l’impatto sul momento, nulla la traccia che lascia. E ogni giorno si ricomincia, da capo.

Elisabetta Elia

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