Napoli contro Milan del 2008 è una narrazione sportiva da ricordare, custodire e raccontare ogni volta che possiamo.
Erano gli anni senza covid, dove le uniche varianti che conoscevamo erano quelle di gioco, un periodo certamente non semplice, giacché attanagliato di una crisi economica che sanciva i prodromi di alcune spaccature sociali che due anni prima erano state tenute insieme con lo sputo di un mondiale.
Era il 2008, l’anno in cui Giorgio Napolitano sciolse le camere e Toshiba mise fuori produzione i DVD. Insomma si respirava aria di cambiamento, in peggio, con la realtà che insinuava pericolosamente le sue dita infami nelle viscere dei sogni.
11 Maggio 2008: una data da ricordare per gli azzurri
I sogni, appunto, era tutto ciò che restava al popolo-tifo di allora.
A Napoli era il primo anno di serie A dopo gli anni di inferno di Lega Pro che avevano anticipato il purgatorio della B, quest’ultima, dimensione ormai familiare a Napoli dopo gli anni di Salvatore Naldi e gli ultimi, funesti, di Corrado Ferlaino.
Il Napoli si presentava così, con sessantacinquemila spettatori al San Paolo, un derelitto di cemento e ferro tenuto insieme solo dall’entusiasmo dei tifosi.
Quell’anno la squadra si proponeva come outsider da neopromossa e, quel giorno, aveva intenzione di sorprendere tutti, soprattutto l’avversari: il grande Milan. Non un grandissimo Milan, in quanto proprio quell’anno, per i rossoneri, iniziavano a diventare evidenti le crepe della dinastia ancelottiana che in campo aveva eroso nella consistenza i suoi “fenomeni” Inzaghi, Kakà, Seedorf, quel giorno ancora in campo.
Ma in certi momenti la storia sembra facilitare l’impegno di quelli chiamati a romanzarla, in quanto inscena momenti fatti apposta per essere scritti e racchiusi in una narrazione epica e appassionante. Quel giorno, infatti, c’è tutto quello che occorre da manuale propperiano: il protagonista che vuole raggiungere il sogno, l’oggetto del desiderio: l’Europa, la conquista, il riscatto, l’antagonista più forte sulla carta. Il Napoli era chiamato a coronare il sogno iniziato l’anno prima con il ritorno in serie A: provare ad agguantare un piazzamento europeo – sogno poi sfumato per una più forte Udinese, cartina di tornasole di quanto siano cambiati i rapporti di forza in tredici anni – e doveva farlo, beffardamente, contro il club più rappresentativo d’Italia in Europa. Una staffetta, un passaggio di consegne. Una rinascita per un disfacimento. Strade opposte e dimensioni diverse ma che, per un attimo, entravano a contatto invertendo la loro parabola.
Napoli – Milan celebra gli obliati del sogno azzurro: i Navarro, i Garics, i Contini
La partita finì 3 a 1.
Chi scrive, quel giorno, era a vedere la partita allo stadio. Fu una vittoria schiacciante. Tra campo e spalti, tra giocatori e tifosi, si stabilì una connessione inesprimibile, così come è impossibile descrive l’autentica bellezza, in quanto, entrambe, dimensioni appartenenti al regno delle sensazioni.
Fu un grande momento, e reso ancora più indimenticabile col senno di poi.
Era quel periodo dove tutto veniva visto con rinnovato stupore, per la prima volta dopo gli anni di Diego Armando Maradona, che sarebbe man mano scemato raggiungendo certe vette rese, poi, abitudine.
Era quel periodo dove i Navarro, i Savini, i Garics, i Mannini, i Contini hanno toccato il punto più alto della carriera. Era quel periodo dove coloro che sarebbero diventati grandi, come Hamsik e Lavezzi, si sono consacrati sigillando il loro nome sul tabellino della partita, omaggio per gli almanacchi e per la storia sportiva.
Vi era stato anticipato: a volte la storia rende facile il lavoro dei romanzieri.
Un sogno che anno dopo anno sembra corrodersi
Insomma, era un Napoli diverso da questo odierno, non peggiore, non migliore in senso assoluto. Era un Napoli operaio, miracoloso a tratti, sicuramente inferiore – ma solo tecnicamente – a quello di oggi. Eppure, tutto ciò che accadeva alla squadra in quegli anni sembrava pervaso da una candida magia, sostenuta dalla forza entusiastica e dai rituali dei tifosi, da cui scaturiva un’alchimia irresistibile e che permetteva alla squadra di dare qualcosa in più ogni volta. Una forza che spersonalizzava le individualità, in campo e fuori dal campo, unendole in un tutt’uno dionisiaco travolgente.
In quello stadio vetusto e fatiscente, che per i giocatori costellava tutto l’universo – mentre per i tifosi tutto l’universo erano quegli undici uomini – si vergava l’inizio di un sogno bellissimo. Impagabile.
Un legame spirituale che teneva insieme Napoli e i napoletani. Tempi che oggi sembrano lontani, tempi in cui si badava alla sostanza, al sentimento, non all’estetica e alla fredda razionalità come mezzo. Di un popolo, oggi, sedotto legittimamente dall’immanenza dei traguardi terreni.
Il Napoli di ieri non era più forte di quello di oggi. Ma era un Napoli autentico, fatto di calciatori di ogni etnia e di ogni caratura che correvano dietro a un pallone – certamente per soldi e carriera – ma che trovandosi involontariamente in un sogno vi si aggrappavano con tutte le forze. Quel Napoli è una grande narrazione da ricordare, custodire gelosamente e raccontare ogni volta che possiamo.
Enrico Ciccarelli