Quando nel lontano 2004 Gerard Piqué militava tra le fila del Manchester United agli ordini di Sir Alex Ferguson, non immaginava di potersi evolvere, un giorno, nel portavoce di migliaia di persone a sostegno di una causa comune. E pensare che all’epoca la primavera del Barcellona (Barcelona B) aveva deciso di non puntare sulle sue prestazioni e di non coltivare il suo talento, e, anzi, di mandarlo all’estero, dove all’età di 17 anni Piqué firmava il suo prima contratto da professionista nel mondo del calcio. Qualche polemista avrebbe potuto interpretarla come la più incredibile delle contraddizioni, quella del Club calcistico più indipendentista del globo che manda via una sua giovane promessa allevata fino a quel momento in casa propria con tanta attenzione, magari anche dopo averlo indottrinato con i migliori pensieri e con le più sfacciate convinzioni proprie dei secessionisti.
Tuttavia, era un periodo in cui i sentimenti di indipendenza e di liberazione da Madrid erano poco diffusi in Catalogna (nel giugno 2006, solo il 15% dei Catalani era a favore della secessione), e quasi inesistenti erano le manifestazioni che oggi popolano con grande frequenza le strade di Barcellona.
Destino volle che nel 2008 il giovane Gerard, nato e cresciuto a Barcellona, fosse riacquistato dal suo vecchio amato Club, presso il quale sarebbe poi rimasto per i successivi dieci anni (da compiere l’anno prossimo). Nel corso dei suoi anni al Barcellona FC Piqué si è distinto sì per le prestazioni calcistiche messe in atto sul campo, ma più di tutto per ostentare una personalità da vendere e per essere dotato di un carisma che il più delle volte anche i più bravi difensori del mondo non possiedono. Un carattere forte e deciso, mostrato sia dentro che fuori dal rettangolo di gioco. È lui che spesso infiamma i prepartita più sentiti. È lui che rilascia le più irritanti dichiarazioni dirette ai rivali calcistici.
Questa sua stessa personalità lo ha portato a manifestare in più occasioni, e in maniera più che aperta, il suo desiderio di indipendenza della Catalogna. La conferma la si è avuta nelle scorse settimane, quelle precedenti ed immediatamente successive al referendum del 1 ottobre, nell’arco delle quali il difensore del Barcellona è diventato una delle personalità leader nella battaglia indipendentista catalana. Si sa, le grandi battaglie si portano avanti e si vincono grazie alla personalità di coloro che se ne fanno carico e le rappresentano. E Gerard Piqué, un normale calciatore che non riveste alcuna carica politico-istituzionale, si è assunto la responsabilità, attraverso fior di tweet, di dichiarazioni ed interviste ufficiali, di sollecitare milioni di catalani a portare avanti la loro posizione.
Ciò che impressiona è la tenacia e, allo stesso tempo, la calma che Piqué usa nel parlare alla sua gente: spesso invita la gente alla riflessione, è un indipendentista convinto, e convinte, anche se poco condivisibili, sono le sue valutazioni sull’assunto. Né si può dire che le sue siano semplici affermazioni populiste, fatte solo con lo scopo di attirare consensi, anzi, è indubbio che le sue esternazioni siano mosse da un profondo sentimento interno che lo lega alla sua terra d’origine. Lo dimostrano le lacrime mostrate a milioni di spettatori durante un’intervista rilasciata a margine delle violenze verificatesi nel corso della scorsa consultazione referendaria. “Votare è un diritto da difendere”, aveva dichiarato, evidenziando la necessità che, a prescindere dal risultato finale, il referendum avrebbe dovuto svolgersi regolarmente e senza violente interruzioni.
Il fatto è che, per chi non ne fosse al corrente, Gerard Piqué è da anni un difensore della Nazionale spagnola, vale a dire, un rappresentante di una sorta di istituzione sportiva nazionale, espressione della Spagna unita. E allora, la perplessità di base permane: come fa un Catalano, secessionista convinto, che non perde occasione per far conoscere al mondo la sua posizione, a continuare ad indossare, anche in un periodo così delicato, la camiseta roja della Seleccion Española? La Spagna intera se ne è resa conto da qualche anno, e ad ogni partita della Nazionale i fischi e le urla “Fuera” (fuori) provenienti dal pubblico accompagnano ogni suo singolo tocco di palla.
Se l’opinione pubblica mantiene una posizione di mero rispetto di fronte ad altri calciatori catalani che sono parte della Nazionale, quali Busquets o Fabregas, i quali preferiscono tenere per sé l’indipendentismo e non mischiare calcio e politica, al contrario, una sorta di sentimento di odio sembra essersi sviluppato attorno alla discutibile figura del centrale del Barça. Inevitabile, se si pensa alle innumerevoli uscite anti-spagnole ed anti-madridiste delle quali si è reso protagonista negli ultimi anni. Dalle risposte, chiaramente provocatorie, date in lingua catalana ai giornalisti che gli rivolgono domande nel pre-partita della Nazionale spagnola, alle pubbliche dichiarazioni di disprezzo rese all’indirizzo della Capitale, dei suoi abitanti e supporter del Real Madrid: “Non mi piace che sul palco del Bernabeu ci siano le persone che muovono i fili del Paese”. Dichiarazioni forti, che paventano un celato insurrezionalismo, e che spesso gli hanno mostrato le porte del Tribunale.
Eppure, il numero 3 del Barcellona non sembra sentire il peso delle critiche giornaliere che lo riguardano e continua ad essere tuttora un punto fermo della squadra di Lopetegui. Anzi, ultimamente ha addirittura cercato di spiegare la legittimità prima ancora che la fondatezza della sua militanza tra le fila delle Furie Rosse.
“Non ho niente contro la Spagna: non è il mio caso, ma un indipendentista può giocare in Nazionale. È assurdo mettere in dubbio il mio impegno in Nazionale. Sono qui da 15 anni, considero questa squadra come la mia famiglia: sono orgoglioso di essere nella selezione spagnola e i dubbi nei miei riguardi mi offendono. Non lascio la Nazionale”. Insomma, l’incoerenza è il primo dato che è possibile ricavare dalla posizione di Piqué, specie se si pensa che la sua scelta di indossare la maglia della Nazionale sembra aver costituito una sorta di ripiego: “In Catalogna non esiste una Nazionale, quindi perché non dovrei giocare per la Spagna?”. Una valutazione di convenienza, a dirla tutta. Ma l’incoerenza sembra assumere i tratti dell’ipocrisia quando, addirittura, il difensore, alla giornalista che gli chiede se è o meno un vero indipendentista, risponde che la sua opinione sul punto non è importante. Tutto ciò dopo che per anni la sua opinione sul punto è stata ed è tutt’oggi abbastanza chiara.
Di tale incoerenza forse se ne sarà reso conto lui stesso che, infatti, alcuni giorni dopo, si è detto pronto a lasciare la Nazionale se la sua posizione dovesse rappresentare un problema per la Federazione e per i compagni. Proprio lui che, giorni addietro, aveva usato una curiosissima metafora per inquadrare il rapporto tra Spagna e Catalogna: Piqué aveva paragonato la sua regione di appartenenza ad un figlio appena 18enne che vuole lasciare casa al fine di diventare più indipendente ed autonomo.
Considerato il suo ultimo passo di lato, qualcuno gli avrà illustrato che il figlio che vuole l’indipendenza dai genitori, la casa la lascia per davvero, piuttosto che continuare a mangiare al loro tavolo.
Amedeo Polichetti