Morire di democrazia, di consumismo e iper-produttività
George Grosz – Eclisse di sole, 1926 (Il Curioso Errante)

Perversione nella Democrazia

Democrazia. Una parola dal significato cristallino: démos (popolo) kràtos (potere), ma di un’applicabilità molto complessa. Cos’è infatti il potere del popolo? Questa parola così potente trascina con sé un’idealità che è assai più forte della sua manifestazione reale. L’attuale democrazia sembra un grande malinteso, evidenziato dall’ambiguità differenziale che vi è tra idea e fenomenicità. E questo ha portato non già ad un freno delle attribuzioni date alla democrazia, corrisposto da un’adeguata riflessione sulle reali possibilità di conseguimento, ma ad un suo sovraccarico strutturale di aspettative che la sta destituendo.

Schumpeter scrisse: «Il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare

È qui che si annida il pregio e, al contempo, la perversione della democrazia. La discriminante democratica è la competizione elettorale, un gioco interattivo che si svolge con ciclicità. Essa fornisce un fondamento di legittimità, bensì attribuisce un diritto di voto attraverso il suffragio universale; un diritto fondamentale nelle civiltà occidentali ai fini dell’emancipazione politica. In teoria la democrazia moderna dovrebbe essere uno strumento d’equilibrio tra governati che esprimono il proprio principio di rappresentatività attraverso il voto, e governanti eletti che legittimano politicamente ed eticamente le scelte della maggioranza (almeno), per garantire il bene della comunità. La società civile si dovrebbe basare su principi d’aggregazione, di cooperazione, d’empatia e ripugnanza ecc., c’è un’irriducibilità dei principi politici ed etici di fronte ai principi economici e, di conseguenza, ci dovrebbe essere un connessione dell’individuo con il bene comune e l’interesse pubblico e una valorizzazione della partecipazione diretta del cittadino agli affari collettivi, soprattutto per quanto concerne le sorti dell’esistenza della comunità politica.

Ma nello Stato democratico determinato non solo da rapporti giuridico-politici ma anche da rapporti di produzione, è possibile una concreta emancipazione umana?

Nell’attuale post-modernità l’universo politico ed economico ha assimilato una norma di competizione generalizzata secondo un modello di mercato, ciò ha ridimensionato le forme di solidarietà collettiva e ha accentuato l’individualizzazione e la mercificazione dei rapporti sociali, in più si è giunti ad un’estrema polarizzazione tra ricchi e poveri.

Dove si annida la perversione? Nel processo di de-democratizzazione, che consiste nello svuotare la democrazia della sua sostanza senza sopprimerne la forma.

Lo Stato democratico è da considerarsi alla stregua di un’impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con altri Stati. Dunque il modello imprenditoriale è promosso a paradigma da seguire e raggiungere: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare. Il cittadino consumatore, guidato dall’interesse materiale, si limita a scegliere tra le varie offerte politiche e i politici s’adeguano in chiave social design (identificazione/persuasione verso il successo) alla domanda consumistica degli elettori. Quindi nell’ottica della buona governance e della gestione tecnicizzata, vi è la stilizzazione del linguaggio politico, un stile estetico del tutto pubblicitario (marketing/propaganda) per rendersi più impressionabili e memorabili tramite una seduttività statuaria. Il principio elettorale si riduce a mera formalità. Le disuguaglianze economiche e sociali nella società capitalistica fanno sì che l’emancipazione dell’individuo sia astratta e parziale.

L’individuo odierno non ha diritti, poiché secondo le logiche odierne, nessuno riceve nulla per nulla e solo lavorando di più si guadagna di più. Il soggetto di riferimento non è più il soggetto di diritto, ma un soggetto auto-imprenditore (self-made man). L’homo oeconomicus è colui che agisce per appagare il proprio desiderio d’accumulazione, è colui che lavora per soddisfare i propri bisogni edonistici, è colui che commercia per ottenere qualcosa che non possiede in cambio di qualcosa che non utilizza. Ma più l’essere umano (produttore/consumatore sovrano) è implicato in questa assuefazione industriale, più tende a divenire egli stesso un oggetto che ha valore solo per quello che produce in campo economico, dunque una risorsa umana di cui sbarazzarsi quando non sarà più performante, non più utilizzabile. Dunque in questa condizione di totale indifferenza e di asservimento al principio di iper-produttività e di prevaricazione, si procede nello smantellamento dello Stato sociale e della vita comunitaria.

Da qui, una domanda: si può morire di Democrazia?

«Ecco, secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri: una è l’oligarchia quando degenera, per le lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue nel ridicolo.»

Così scrisse Platone ne La Repubblica. Nella civiltà dei consumi l’unica libertà concreta è quella di crearsi un dominio protetto, cioè la proprietà. Non vi è libertà di partecipazione politica, quindi non vi è nemmeno sovranità popolare e imperversa la tirannia divinizzante del denaro e dell’io. I binomi sono essenzialmente due: Opulenza/plusvalore, povertà/debito.

Questa nostra democrazia moderna  è essenzialmente un regime politico anti-democratico.

Questa razionalità dominante, dedita alle leggi di mercato, alle politiche dell’austerity, alla continua valorizzazione del sé attraverso l’ascesi della prestazione che abbia come fine un profitto massimale, all’economia organizzata dall’esibizione del godimento senza limiti; annientano ogni espressione comunitaria e degradano ogni strumento culturalmente fecondo, politicamente valido ed eticamente corretto, ai fini di un’emancipazione umana. Resistere a tutto ciò è possibile, urge acquisire delle forme di contro-condotta, disobbedire attraverso la cooperazione collettiva, rifiutarsi di lavorare di più e sempre più in fretta. I diritti non sono negoziabili, il tempo non è merce.

Marx scriveva: «la storia non fa niente.» Quello che conta sono gli uomini, che agiscono in condizioni date per crearsi un futuro tangibile con le proprie azioni. Spetta a noi consentire la nascita di un nuovo orizzonte del possibile. Il governo degli uomini può sradicare i principi dogmatici di massimizzazione delle prestazioni, di produzione illimitata, di centralizzazione del potere, di governamentalità imprenditoriale/concorrenziale. Le pratiche di comunizzazione del sapere, di mutua assistenza, di lavoro cooperativo possono designare lo spazio per un’altra ragione del mondo. La ragione comune.

Gianmario Sabini

VIAGianmario Sabini
FONTEGianmario Sabini
Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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