“La letteratura è una difesa contro le offese della vita. Le dice “tu non mi fai fesso: so come ti comporti, ti seguo e ti prevedo, godo anzi a vederti fare, e ti rubo il segreto componendoti in scaltrite costruzioni che arrestano il tuo flusso.”

Al pari di un mare limpido e cristallino, increspato da inarrestabili onde, la letteratura è l’ineguagliabile specchio dell’animo umano, talvolta timidamente annebbiato dalle ombre pavide e schive del vissuto di ognuno di noi, talaltra consolante per gli strazianti tormenti che avviluppano l’essere umano in ogni momento della sua vita. Essa non si sbroglia, al contrario, imperterrita, resiste, addensandosi in un gomitolo di esperienze, in una matassa aggrovigliata di emozioni che incantano, denudano, annientano.

Questa medicina dell’anima profonde la sua quintessenza in uno dei testi letterari più complessi e significativi del ‘900: “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese. Un legame simbiotico, impossibile da sciogliere, quello tra arte e vita, che, nell’opera, paiono quasi sovrapporsi, confondersi fino a ignorare ed obnubilare i confini dell’una e dell’altra. L’arte è vita e la vita è arte, e laddove la vita sia troppo misera, ridicola, a volte irrisoria per le smisurate pretese umane, ecco che interviene l’arte, quella stessa arte che soccorre, spalleggia e protegge.  E quando un dolore corrode, usura ogni tiepido bagliore di quiete, spintonando chiunque tra le spire del sonno della ragione, del nichilismo, della crisi esistenziale, solo la letteratura dispensa il caldo abbraccio di una madre, dà un senso compiuto alla sofferenza, collocandola nella dimensione dell’infinito e dell’assoluto, e aiutandoci a capire il suo astruso significato.

“Gli uomini che hanno una tempestosa vita interiore e non cercano sfogo nei discorsi o nella scrittura sono semplicemente uomini che non hanno una tempestosa vita interiore.”

Pavese inizia la stesura de “Il mestiere di vivere” nel 1935, quando, per le avversità contro il fascismo, è confinato a Brancaleone Calabro, e la termina nel 1950, nove giorni prima che ponesse fine alla sua vita. Lo scrittore piemontese, ricalcando le orme di leopardiana memoria nello Zibaldone, attraverso i suoi vissuti incessantemente si interroga sulla ragione ultima della morte, della vita, del suicidio, dell’arte, giungendo a universalizzare ciò che egli in prima persona vive. Il senso di opprimente angoscia, di morte fissa e incombente galoppano tra le pagine di questo memoriale letterario, riversandosi nella cruenta consapevolezza dell’abbandono e dell’emarginazione: ognuno al mondo è solo con le proprie paure, la propria profonda insoddisfazione, la propria malinconia, e nessuno è veramente in grado di penetrare negli orditi sibillini e macchinosi dell’altro. Ed ecco che alacremente la solitudine si impossessa dell’animo umano, tessendo una ragnatela a cui è impossibile scampare.

“Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia.”

“Ciò che è stato, sarà”, afferma Pavese guardando all’esistenza. Vivere è come conoscere una seconda volta, in quanto la vera conoscenza si realizza nell’infanzia, nel momento in cui l’uomo per la prima volta entra in contatto con le cose del mondo e, come nel mito, egli è destinato sempre a riviverle.

“Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta.”

È in questa dimensione che si incastona l’autentico disagio esistenziale, che esprime soltanto impossibilità di rialzarsi, quando anche la speranza si è dissipata e l’arte, ormai, non è più sufficiente.

“Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto
della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio.

Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio.

Tutto questo fa schifo.
Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”

Clara Letizia Riccio 

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