Da pochi mesi presidente di Confindustria, Carlo Bonomi non è mai riuscito a non attaccare il governo e i sindacati in tempi di piena emergenza pandemica, tracciando inevitabilmente il terreno di conflitto e della politica della crisi dei prossimi mesi.
Confindustria pandemica
In Lombardia, nonostante le lamentele di Confindustria, il lockdown in realtà non sembra esserci stato in termini di chiusura delle imprese. L’ISTAT ha stimato che nella regione governata da Fontana in alcune province (tra le più colpite dal coronavirus) a marzo e aprile il 70% dei lavoratori andava regolarmente al lavoro. Questo grazie al DPCM del 22 marzo, che permetteva alle imprese di presentare ai prefetti una deroga alla chiusura, autocertificando di appartenere a un settore funzionale a quelli essenziali. Sulle scrivanie delle prefetture sono arrivate decine di migliaia di autocertificazioni, impedendo un’ispezione rigorosa sulla veridicità di quanto dichiarato.
Non solo: in questi giorni gli inquirenti hanno sentito i vertici di Regione Lombardia riguardo alla mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, due focolai in Val Seriana che hanno dato il via alla strage da COVID-19 nel bergamasco. Quest’area, dove sono presenti grandi aziende, rappresenta 680 milioni di fatturato l’anno. Nonostante Fontana abbia negato di fronte ai pm di aver ricevuto pressioni da Confindustria per non decretare la zona rossa, il suo vice presidente Sala aveva invece dichiarato in un’intervista di aver chiesto alla rappresentanza padronale quali aziende potevano chiudere. Facile intuire la risposta.
In questo modo Confindustria, che si è sempre opposta alla chiusura e ha concepito la riapertura ad ogni costo (in questo caso, umano) per far ripartire i profitti, ha giocato la sua carta, combinando un’insofferenza deprecabile verso la chiusura con dirette e indirette pressioni sulla politica e i suoi rappresentanti.
Il conflitto, politico e non
Fin dalla sua designazione al vertice di Confindustria, Bonomi a più riprese (a Piazza Pulita e sui principali quotidiani nazionali) ha scostato il velo che nasconde la classe imprenditoriale del nostro paese, quella dei “padroncini“. Nelle numerose e dure dichiarazioni rilasciate (l’ultima, «questa politica fa più male del Covid»), il Presidente di Confindustria non ha mai nascosto di essere deluso dalle misure economiche messe in campo dal governo, minate da un «sentimento anti-industriale» e da «sadismo verso le imprese».
Di rimbalzo, Confindustria ha marcato il passo per i provvedimenti che sì, bisognerebbe adottare: poiché gli interventi a pioggia in spesa corrente e in sostegno al reddito non servono a nulla (sic), è fondamentale il taglio dell’IRAP e delle tasse in generale, il pagamento dei debiti della PA e lo sblocco delle opere pubbliche.
Ma l’obiettivo principale di Confindustria è quello di modificare le relazioni industriali in modo da favorire la contrattazione aziendale su quella collettiva, l’ultima roccaforte di un mercato del lavoro considerato ancora troppo “rigido” e che deve diventare «una cornice esile». Così, le imprese saranno libere di imporre le condizioni lavorative ai dipendenti individualizzati e senza rappresentanza sindacale: un divide et impera padronale, fondato sulla compressione salariale.
Inoltre, altro punto cardine della strategia di Bonomi è che le risorse pubbliche, sprecate in spese a pioggia, devono essere “selettive”, tese cioè a favorire le imprese. A riguardo, in queste settimane è sorto un dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia, che ha assunto toni surreali su una presunta «sovietizzazione delle imprese» (!).
Nella schiera di chi intende lo Stato come mero facilitatore del mercato, strumento salvatore quando le imprese lo necessitano ma che non può arrogarsi il diritto di entrare nel CdA delle imprese strategiche aiutate, c’è Confindustria, terrorizzata dall’intervento pubblico strutturale piuttosto che dalla fragilità endogena del sistema produttivo italiano, che in questa crisi rende lo stesso intervento desiderabile, se non necessario. Visione che conferma, ancora una volta, l’inadeguatezza dell’imprenditoria italiana. Sul fronte opposto, vi sono economisti come Mariana Mazzucato, consigliera economica di Conte e teorica dello Stato imprenditore. Lo Stato dovrebbe orientare gli investimenti per stimolare l’innovazione, fornendo gli indirizzi generali di una seria politica industriale per guidare il cambio strutturale dell’economia.
Un altro punto dell’offensiva di Confindustria è la flessibilizzazione del mercato del lavoro, puntando sulla produttività e poi, forse, sugli aumenti retributivi. Tuttavia, un recente studio ha smentito gli effetti positivi sull’occupazione delle politiche di deregolamentazione del lavoro degli ultimi 30 anni. La flessibilità reclamata da Confindustria causa depressione salariale, deflazione da debiti e aumento delle disuguaglianze: pensare che le tutele nel mercato del lavoro siano un ostacolo alla ripresa non ha basi scientifiche, svelando come dietro agli attacchi di Bonomi vi siano solamente posizioni ideologiche.
Pluralismo e “padroncini”
La pervasività della visione di Confindustria sulla politica è evidente non solo dai vari decreti emanati dal CdM, ma anche dal piano elaborato dalla Commissione Colao e presentato a Conte pochi giorni fa: in sostanziale continuità con le politiche economiche degli ultimi trent’anni, dettagliatissimo su come aiutare le imprese, è invece carente sulla questione salariale e il lavoro. Del piano Colao si parlerà sicuramente agli Stati generali dell’Economia organizzati da Conte, dove Confindustria, nonostante le polemiche con il governo, sarà presente e potrà influire.
Fonte: Forum PA
Il governo della crisi è il terreno di conflitto a cui Confindustria non ha tardato a dettare la linea, e a risentirne, di fronte all’apparente irrealizzabilità di determinate politiche senza l’avallo dei padroni, sono il pluralismo e i lavoratori.
Questo perché in Italia, nonostante le idealizzazioni, l’imprenditore non è l’idealtipo schumpeteriano, dotato di forza di distruzione creativa. La classe imprenditoriale è anche conformata da “padroncini” che dopo un cataclisma globale inedito come una pandemia non ha perso tempo a voler tornare alle logiche di sfruttamento di prima, fondando la ripartenza economica su un paradigma ancora più spietato del precedente. Un capitalismo miserabile, che froda l’INPS e che comprime salari e diritti dei lavoratori, senza capire che, sviluppatosi sulla domanda interna, sta tagliando il ramo su cui è seduto.
Difatti, il tessuto produttivo italiano (rappresentato in larga maggioranza da micro e piccole imprese a gestione familiare) negli ultimi trent’anni si è semplificato e deindustrializzato attorno a manifatture di basso valore aggiunto, dove la produttività del lavoro, gli investimenti e i salari reali languono, la competitività è bassa e una strategia industriale organica e di lungo periodo manca. L’imprenditoria nazionale è la principale responsabile di questa decadenza industriale, fatta di esternalizzazioni e contratti a termine, di evasione contributiva e di depressione salariale, per non parlare della poca capitalizzazione in settori innovativi e dinamici. Un disastro per cui gli stessi responsabili, tra i quali proprio Confindustria, chiedono oggi le medesime misure di ieri.
Di fronte alla difesa degli interessi imprenditoriali, che come qualsiasi altro gruppo di interesse Confindustria vuole tutelare, è necessario proporre una visione politica plurale di più ampio respiro, che faccia tesoro di questi mesi tragici per il Paese, focalizzandosi sulla difesa della sanità pubblica, sulla sicurezza sociale di tutti e non sui profitti di pochi, sul necessario protagonismo dello Stato per uscire dalla crisi. Un terreno di conflitto che sta mutando rapidamente e che Confindustria, per il momento, sta egemonizzando.
Augusto Heras