C’è ancora una scuola di pensiero critica nei riguardi dei social network che li dipinge come il luogo dove si consuma ogni giorno la morte delle relazioni sociali e dove l’individuo è ormai passivo rispetto al flusso di notizie che lo bombarda dallo schermo dello smartphone, mentre il giornalismo lentamente muore.
Tuttavia, a cercarla bene, si può sentire l’eco di una flebile nota di speranza, rappresentata da quello che potremmo definire il figlio, voluto e legittimo, del matrimonio tra giornalismo e social network.
Partiamo dal concetto di citizen journalism.
Sull’Enciclopedia Treccani leggiamo che “il citizen journalism è diventato un importante fenomeno del XXI secolo grazie ai mezzi di espressione messi a disposizione da internet“. Il citizen journalism, nato molto tempo prima – alcuni sostengono tra il XVIII e il XIX secolo –, è un termine con cui si fa riferimento a tutte le attività giornalistiche praticate da non professionisti: si tratta da una parte di commentare le notizie messe a disposizione dai media tradizionali, dall’altra di far circolare notizie nuove, prodotte dagli stessi citizen journalist, persone che a titolo personale e gratuito riportano notizie ed esperienze della realtà circostante, spesso afferenti al contesto locale.
L’avvento di Internet alla fine del XX secolo ha rivoluzionato questa pratica, rendendola a un tratto visibile macroscopicamente: nasce il blog.
È con il blog che inizia a farsi strada questo nuovo modo di intendere la comunicazione: il blog è il primo social media, la cui caratteristica principale è ridurre la linea di separazione tra produttori di notizie e audience, democratizzando in certa misura lo spazio pubblico. Un social media si caratterizza per essere aperto, partecipativo, dialogico, comunitario: aperto, perché fondamentalmente accessibile a chiunque abbia una connessione a internet; partecipativo, perché permette a chiunque sia interessato di esprimere la propria opinione in maniera pubblica; dialogico, perché appunto si tratta di una comunicazione in entrata e in uscita invece che del circuito chiuso del broadcast; comunitario, perché basato sulla costruzione di reti virtuali che connettono persone reali.
Ma la vera svolta si ha con la nascita degli smartphone.
Tale prodotto in pochi anni è diventato sufficientemente economico da essere accessibile a una gran parte della popolazione mondiale e rende sempre più rapida e semplice la pubblicazione e la condivisione di notizie e di materiali multimediali.
Un caso interessante in relazione al fenomeno del citizen journalism, per la sua enorme portata e per essere stato fondamentale ai fini della narrazione dei fatti, è quello delle Primavere Arabe. Nel contesto di regimi dittatoriali – dove la repressione dell’associazionismo è la norma, la censura e il controllo dei media sono il pane quotidiano, rendendo gli organi di stampa tradizionali inaffidabili o meri portavoce del messaggio politico egemonico –, l’uso dei social network è stato vitale nell’evolversi delle rivoluzioni popolari che hanno cercato, con più o meno successo a seconda dei casi, di capovolgere lo stato delle cose.
Ma non tutte le esperienze di citizen journalism sono positive.
In paesi come il Bahrein, dove purtroppo la repressione militare ha avuto la meglio sui manifestanti nel marzo 2011, l’utilizzo dei social network si è rivelato uno strumento a doppio taglio. Come in Egitto, anche qui Facebook è stato utilizzato per creare una comunità anti-governativa prima dello scoppio della rivoluzione e per organizzare la manifestazione del 14 febbraio, mentre Twitter è stato spesso utilizzato per denunciare in tempo reale gli attacchi ai manifestanti, localizzandoli e permettendo così ai servizi di emergenza di raggiungere il luogo dell’incidente.
Il risultato? La localizzazione è stata utilizzata dal governo per individuare i capi delle proteste, mentre il gruppo Facebook Together to Unmask the Shia Traitors è diventato la sede del linciaggio virtuale dei “traditori” e una fonte di notizie fondamentale perché il governo potesse localizzarli e arrestarli.
La testimonianza “live” degli atti di violenza commessi dalle forze di repressione, il materiale audiovisivo prodotto nel contesto delle rivoluzioni che hanno animato il mondo arabo a partire dal 2011 e che oggi si continua a produrre, purtroppo, in Siria sono tutti atti di citizen journalism.
Citizen journalism che è riuscito a informare e mobilitare non solo la popolazione dei paesi d’appartenenza, ma anche e soprattutto la popolazione mondiale, in tempi rapidi e con efficacia. In contesto siriano i social network hanno contribuito, nei primi stadi della rivoluzione, a creare una rete di solidarietà e di aiuti materiali grazie al contatto diretto tra i gruppi di ribelli e i donatori sparsi per il mondo.
Per questa ragione, affinché continui a rivelarsi una risorsa utile, è necessario che questa pratica giornalistica “dal basso” venga incorporata al giornalismo tradizionale, fornendo una fonte o uno spunto al professionista. Da parte sua il giornalista si fa garante dell’autenticità del prodotto proveniente dai social network e lo integra con informazioni affidabili e obiettive, portando a termine la sua funzione tradizionale.
Oggi non ci stupisce vedere in un telegiornale l’incorporazione di un video tratto dalla rete, soprattutto nel già citato caso di incidenti o attacchi terroristici, eventi improvvisi e imprevedibili che non possono essere catturati se non dalle persone presenti. Il citizen journalism nell’era dello smartphone e di Facebook ha dunque un potenziale enorme, senza necessariamente entrare in contrasto con il giornalismo mainstream, che anzi può senz’altro trarne vantaggio nei termini di una visione più ampia della realtà, continuando il processo di democratizzazione dei media e dello spazio pubblico.
Claudia Tatangelo