Pablo Neruda (1904 – 1973) è stato probabilmente il poeta che con più forza ha attraversato il Novecento. Pochi come lui hanno saputo abbracciare di poesia così tanti rami dell’esistenza. Diplomatico e politico sempre impegnato, è sopravvissuto emotivamente (e fisicamente) a dolori atroci. Ha visto da vicino guerre e ingiustizie, commesso sbagli, lasciato più volte il suo amato Cile per lavoro prima e per esilio dopo, per ritrovarlo sempre in un posto caldo, in fondo al cuore. Ha vissuto amori strazianti e girato il mondo armato solo di una penna piena di roba da dare, da raccontare.
India, Argentina, Spagna, Francia, Messico, Italia e poi più volte nei paesi comunisti dell’Europa orientale per capire e appoggiare (anche troppo) la figura controversa di Iosif Stalin. Follemente attratto dall’ideologia comunista si è preso a cuore la lotta degli sfruttati condividendone le volontà, e con parole semplici e sempre intrise di calore umano ha passato una vita a cantare gli umili e gli indifesi. Quel fiume di uomini che è esistito in ogni epoca e che nonostante ciò non ha mai trovato abbastanza orecchie da cui farsi ascoltare. E allora, dato che ce ne sono poche, che a farlo siano almeno quelle giuste. Orecchie sensibili ma che non temano gli scossoni. E che soprattutto accettino la vibrazione, anche quella che fa male dentro, come unica possibilità di produrre un suono da tramandare. Orecchie come quelle di Neruda, forgiate dal silenzio e dalle grida della costa Cilena, la sua patria, una striscia di terra affacciata sull’Oceano Pacifico e appesa alla punta di un Sud America sempre in fermento. Perché nascere in posti così, in cui risuona forte l’incontro della roccia, del vento e dell’Oceano significa imparare fin dall’età più tenera che prima ancora degli uomini esiste la casa in cui essi vivono: la Natura.
E di Neruda, della sua figura politica e della sua poesia, si può dire tutto e il suo contrario: da alcuni come García Márquez è ritenuto il più grande poeta del XX secolo, da altri è stato giudicato tanto annebbiato dalle cause politiche da finire talvolta per approcciare in maniera semplicistica la realtà umana. Eppure c’è una cosa che mette tutti d’accordo, perché non riguarda né opinione né gusto, e cioè che Neruda nella sua vita abbia sempre e costantemente cercato e bramato la natura in ogni sua sfaccettatura, come se essa fosse un fisiologico prolungamento dello stesso corpo e della stessa anima del poeta.
Le stagioni poetiche di Pablo Neruda sono state tante e in ognuna si possono notare cambiamenti, approcci diversi, talvolta stili diversi. Ci sono stati momenti in cui ha preso il sopravvento l’amore, altri in cui ha prevalso la battaglia politica e altri ancora in cui lo ha fatto una “semplice” contemplazione della realtà circostante. Ci sono stati anni di quiete e anni di fermento, periodi di totale immersione nella pace rurale e periodi dove il trambusto di città ha fatto da sfondo al suo vivere. Ma se c’è una cosa che può essere definita il filo conduttore che lega tutto il percorso esistenziale di Neruda, si tratta senza dubbio della sua perenne ricerca del contatto con la natura. Da ammirare e cantare se vicina e presente, oppure da evocare e riesumare grazie al ricordo e/o alla metafora se lontana.
Nelle parole di Neruda la natura si è vista celebrare con una passione sconfinata e ha preso qualunque forma, fino addirittura a farsi identificare con la donna amata, già dai primi versi della prima raccolta di poesie, pubblicata nel 1924:
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Leggendo le migliori poesie di Neruda emerge chiara questa indole onnipresente di scorgere la natura anche dove apparentemente non c’è, come se essa fosse l’unica vera porta d’accesso al vero sentire e come se il poeta cileno non ne potesse davvero mai farne a meno, poichè parte imprescindibile della sua essenza e del suo immaginario poetico formatosi in quell’angolo di mondo, il Cile meridionale, «donde nace la lluvia»: un paesaggio immenso e primordiale che fin dall’infanzia gli è entrato nel cuore per non uscirne più.
Nel miglior Neruda risuonano echi di Foglie d’erba di Walt Whitman, il più grande poeta della storia americana nonché in assoluto uno dei migliori cantori della potenza inesorabile della natura. E questo succede soprattutto quando Neruda molla la presa su ogni battaglia umana e politica che vede combattere intorno a se così come da se stesso, per lasciare posto alla sola contemplazione, come se il tutto fluisse attraverso di lui e la sua anima non fosse altro che un buon conduttore dell’energia dell’universo, da raccogliere e poi far sfociare sottoforma di inchiostro.
Una sorta di abbandono che non manca già nelle prime raccolte, ma che piano piano, nel corso dell’esistenza di Pablo Neruda, si fa sempre più intenso e frequente. Da Residenza sulla Terra a Canto Generale fino a L’uva e il vento (composta durante la permanenza nella splendida cornice italiana dell’isola di Capri), le poesie di Neruda sono una finestra su un’umanità segnata dal dolore e da un vivere faticoso che ha lo stesso sapore della terra. Un’umanità talvolta stanca ma mai rassegnata, che là dove sembra non avere più appigli ritrova se stessa nell’abbraccio caldo di una natura maestosa che sa sussurrare le parole giuste. Soprattutto il mare, con Neruda, si è visto cantare con una potenza totale:
Se dei tuoi doni e delle tue distruzioni, Oceano,
alle mie mani
potessi io destinare una misura, un frutto, un fermento,
sceglierei il tuo riposo distante, le linee del tuo acciaio,
la tua distesa sorvegliata dal vento e dalla notte,
e l’energia del tuo linguaggio bianco
che sgretola e disfà le sue colonne
nella purezza della sua rovina (…)
Neruda aveva capito, arrivato a mezzo secolo di vita, che il suo segreto (e quello di ognuno forse) stava nel riappropriarsi di uno sguardo attento e compassionevole verso ogni cosa, soprattutto quelle che scandiscono la nostra quotidianità e alle quali talvolta non sembriamo nemmeno fare caso. Oggetti, paesaggi e atmosfere che diamo per scontati per via del nostro continuo preoccuparci e aspirare a cose più grandi e che meritano invece un nuovo sguardo da parte nostra. Ed è in questo senso che nel 1954 vede la luce Odi elementari, forse la più celebre composizione di Pablo Neruda per via del suo carattere popolare, quasi contadino. Proprio dal titolo si può già evincere il doppio significato che il poeta cileno ha deciso di attribuire alla raccolta: l’aggettivo “elementari” va infatti inteso sia come “semplici” e di facile fruizione, e sia come letteralmente “degli elementi”, poichè è proprio delle cose che maneggia l’uomo che Neruda ha voluto tessere il canto. Cibi poveri e oggetti comuni, sacri emblemi della vita degli umili. E così, fra le tante, c’è spazio per un’ode al carciofo e una alla cipolla, una al pomodoro e un’altra ancora al limone; una all’autunno e una dedicata alle migrazione degli uccelli, esseri così tanto amati da Neruda da finire raggruppati in un’altra raccolta di poesie uscita 1966 intitolata Arte degli uccelli e dedicata soltanto a loro.
Quello delle Odi elementari è un Neruda che ha dovuto fare i conti con l’esilio. Un Neruda maturo, che ha imparato come commuoversi per la semplicità e a godere di un’immotivata contentezza.
Che posso farci, sono
felice.
Sono più sterminato
dell’erba
nelle praterie.
Ciò che Neruda dipinge sono i tratti di un materialismo mistico. Un modo di vedere nuovo e fresco, che pone al centro del suo indagare non più direttamente l’uomo ma la natura lo circonda, se mai fra le due cose ci fosse differenza.
Daniele Benussi