Al di là di balli caraibici, happy hour e giochi di squadra, sulle spiagge di tutto il mondo siede un gruppo di finti oziosi che preferisce starsene all’ombra di un ombrellone con un libro tra le mani o davanti al mare con i propri pensieri. Per questi, al cospetto di romantici tramonti, odori e acque marine, una nuova spiaggia si plasma per fra spazio a chi desidera sondare il mare incerto che ha dentro di sé. Sullo sfondo di quelle bellezze, si profila, dunque, una nuova prospettiva su cui sintonizzarsi: la conoscenza di sé. Nel corso della vita, è frequente l’uso di conoscersi, approfondire le proprie idee, nel momento in cui si presentano situazioni che richiedono una personale speculazione intellettiva, ma possiamo essere previdenti. La lettura del “Dizionario per oziosi” di Joan Fuster si rivela un valido alleato: «leggere è comprendere se stessi, comprendere gli altri e il proprio tempo»
Possiamo sicuramente individuare nella filosofia socratica l’auge della massima sapienziale del «conosci te stesso»: un’esortazione a sondare i propri limiti e le proprie capacità. Al grido del greco faranno eco altri filosofi tra cui Platone, il quale sosteneva che per potersi prendere cura di sé è necessario conoscersi. In questo senso, è bene avere degli spunti per riflettere, porsi le giuste domande, cosa ancora più difficile che darsi delle risposte. Fortunatamente la natura, Dio, la sorte o chi per loro ci hanno dato «spalle di giganti» su cui poterci poggiare e guardare l’orizzonte, tra essi: Joan Fuster (1922-1992) e il suo “Dizionario per oziosi” (1964).
Se a Socrate dobbiamo la fama del motto delfico, Fuster non da meno ricorda ai moderni la necessità di conoscere e conoscersi mediante una pratica definibile, per buona parte, socratica. Prova evidente di ciò è il “Dizionario per oziosi”. Le parole di due studiosi, Luciano De Crescenzo per Socrate e di Costanzo di Girolamo per Fuster, sembrano infatti raggiungere una convergenza davvero sorprendente in vista di un comune obiettivo dei loro “pupilli”. Il primo scrive: «la vita di Socrate fa tutt’uno col suo pensiero. Lui, in pratica, non ha fatto altro che cercare la verità in ogni persona con la quale è riuscito a mettersi in contatto: ha braccato gli uomini come un cane da caccia, li ha bloccati agli angoli delle strade, li ha tempestati di domande e li ha costretti a guardarsi dentro, nel profondo dell’animo. […] Socrate ha bisogno del dialogo, ovvero d’improvvisare il suo discorso a seconda degli stimoli che gli offre l’interlocutore». La filosofia dà il nome di Maieutica a questo procedere conoscitivo, mentre Di Girolamo scrive: «Ma la lezione di Fuster, […] non è stata impartita tanto dall’alto della cattedra universitaria quanto piuttosto dalla pratica costante della tertúlia, cioè della discussione e della conversazione con amici e discepoli su argomenti di politica, di attualità, di letteratura, di filosofia». Un tempo lunghissimo intercorre tra le due differenti personalità, ma entrambe sono impegnate a ritrovare, rispettivamente nel dialogo e nella scrittura, il monito alla conoscenza interiore.
L’autore catalano sceglie come forma privilegiata quella del saggio «per dare espressione a un pensiero volto a istillare il dubbio, a mettere in crisi certezze, a costruire metodicamente una critica corrosiva delle mentalità e dei valori». Il “Dizionario per oziosi” è costituito da sessantuno saggi, distinti per contenuto, tono e stile, leggibili tra un bagno e l’altro senza temere di perdere il filo. Joan Fuster sceglie di seguire un ordine alfabetico nella predisposizione degli scritti incentrati su alcune parole-chiave, mentre attinge alla realtà, alla storia e alla letteratura per le sue divagazioni talvolta aforismatiche talvolta descrittive e ironiche che, nella varietà, sembrano riprodurre i moti di una mente viva e fuori dagli schemi. Considerata l’eterogeneità degli argomenti, e la necessità di filtrare l’opera con l’esperienza soggettiva del lettore, ci si limita ad analizzarla proponendo solo alcune delle parole che possano indurre il lettore a conoscersi meglio; per il resto è necessario leggere e vivere.
La prima domanda da porsi secondo Fuster è: che certezza abbiamo del nostro essere? Nel “Dizionario per oziosi”, Fuster risponde che essere vuol dire immaginarsi diversi, altrimenti: «nessuno avrebbe abbastanza pazienza per sopportare se stesso». Se invece si preferisce rimanere in silenzio, di fronte agli altri o a se stessi, si sappia che «molto spesso, più o meno sempre, anche tacere è mentire». Nella vita, dunque, ognuno può scegliere chi essere se si è disposti a mettere da parte almeno alcune delle proprie convinzioni. A questo proposito, si legge infatti: «qualsiasi convinzione, qualsiasi convinzione seria, si trasformerà per voi in pregiudizio a causa di ulteriori convinzioni. Pensateci. […] In fin dei conti, per andare in giro per il mondo non sono necessarie troppe convinzioni. Ne bastano tre o quattro. Soltanto». In questo numero ristretto di convinzioni rientrano forse la capacità di perdonare, pentirsi, essere liberi?
Col suo ”Dizionario per oziosi”, Fuster ci mette di fronte alla precarietà di alcune convinzioni: prima fra tutte la libertà. Troppo spesso l’uomo crede di essere libero, ma in realtà è solamente assoggettato dall’abitudine o dalla sordità rispetto alle opportunità che ha davanti: «l’uomo che si è abituato a vivere in un ambiente in cui l’assoggettamento e gli ordini dall’alto sono la norma può «insordirsi» (diventare «sordo») rispetto alla mancanza di libertà che lo circonda e lo opprime. Al contrario, l’uomo che si è abituato al piacere della scelta e della disinvoltura può allo stesso modo essere «sordo» ai vantaggi della sua situazione». Ognuno di noi avrebbe pertanto bisogno di un complice, «colui che vi aiuta a essere come siete», al fine di scongiurare un effetto soporifero da parte delle consuetudini, le stesse che spesso sono capaci di trarci in inganno quando crediamo di saper perdonare. Un gesto così nobile non è facilmente praticabile e quando avviene può rivelarsi in realtà una mera illusione: «Oggi abbiamo limitato il perdono all’ambito dei fastidi quotidiani e microscopici […] c’è chi si affretta a perdonare i suoi offensori perché è incapace di odiare o perché odiare lo stanca. Non sto dicendo sciocchezze. Con l’odio succede esattamente quello che succede con l’amore: odiare e amare sono attività, moti psichici che, per sussistere, hanno bisogno di essere alimentati di continuo. Non è facile odiare, così come non è facile amare. Per questo l’indifferenza è più comoda e più comune […]. Molti perdoni, ripeto, non erano altro che rinuncia ad odiare, dettata da impotenza o stanchezza».
Di cosa si è capaci, dunque? Forse di pentirsi, cosa per la quale «troverete sempre una ragione o un’altra», o giudicare, spesso facilmente, chi è vittima di una sedicente codardia mentre si è dimentichi che «potete essere temerari quanto vi pare: sarà sempre possibile che un qualsiasi vostro vicino pensi che il vostro coraggio sia inferiore al suo e che, pertanto, siate dei codardi».
Cosa resta di noi stessi? Un’illusione, un obiettivo, un sogno?
A lettori e viventi l’ardua sentenza.
Alessio Arvonio