Se è vero, come suggeriva Oscar Wilde, che è possibile resistere a tutto fuorché alle tentazioni, sembra essercene una in particolare che i commentatori italiani non provano neppure lontanamente ad evitare: ovvero l’esprimere opinioni non richieste, su temi non di loro competenza, per dimostrare una conoscenza che non possiedono. I Mondiali di calcio femminile in corso di svolgimento in Francia rientrano appieno in questa casistica, e le conseguenze sul dibattito, tanto per cambiare, sono di un’abominevole indecenza.
Prima di tutto, però, le note liete: la partita disputata martedì scorso tra Italia e Brasile è stata seguita da sei milioni e mezzo di telespettatori, con uno share vicino al 30%. Che vuol dire quasi una televisione su tre sintonizzata sulle gesta di Sara Gama, Barbara Bonansea e le altre calciatrici della nazionale. Sarà l’atmosfera suggestiva che solo una Coppa del Mondo è in grado di evocare, sarà il richiamo ancestrale di una sfida che in passato ha scritto le più memorabili pagine della storia del calcio, ma il dato incontrovertibile è che il calcio femminile ha – finalmente – fatto breccia e solleticato le attenzioni del grande pubblico mainstream. La mutazione di paradigma è di quelle da non sottovalutare, giacché oltre a sdoganare la natura nazionalpopolare dello sport per eccellenza anche nella sua veste femminile, getta finalmente luce sulle differenze abissali che ancora persistono con la sua controparte maschile.
Il rovescio della medaglia è rappresentato, invece, dai commentatori di cui sopra. Ma forse sarebbe meglio identificarli fin da subito per ciò che sono realmente: fallimenti dell’evoluzione, sottoscarti della retorica dei luoghi comuni, trogloditi con un’antenna sulla caverna e il rutto libero come unico codice comunicativo. E di quanto si è detto e letto in questi giorni è opportuno discutere, ma più che altro riflettere. Perché se i Mondiali di calcio femminile hanno qualcosa da insegnarci, al di là del mero risultato sportivo che ne potrà scaturire, è proprio il livello di preistoricizzazione in cui il regime patriarcale ha abbandonato la forma mentis di questi individui, a tal punto turbati dalla presenza di atlete, macché atlete, donne, macché donne, femmine sul piccolo schermo da sentire l’esigenza di battere il petto e ripristinare la gerarchia dei sessi attraverso l’emissione casuale di peti mentali e grugniti vocalici.
Il calcio femminile è brutto e noioso: l’obiezione minima è questa, e sarebbe anche comprensibile, se si limitasse a questo. Certo, detto da persone che trascorrono i pomeriggi a guardare pure le partite della Serie C uzbeka lascia un po’ il tempo che trova, ma ci può stare. Non possono starci invece l’insulto, l’oltraggio, l’umiliazione. La tipizzazione della donna che farebbe meglio a starsene in cucina, o della lesbica che si cimenta in discipline maschili per compensare la mancanza di un pene, o delle gesta ero(t)iche di cui le atlete si sarebbero rese protagoniste, o dei doppi sensi al fischio di ogni “fallo”, quello non ci può stare. L’ideologia gender, poi. Il livellamento sessuale, figuriamoci. Vi prego, possiamo renderci ridicoli anche senza sprofondare così in basso. E se il calcio femminile è davvero contro natura come dicono, perché nessuno ha mai levato la voce contro il beach volley maschile, trattandosi di uno sport che esiste, è risaputo, soltanto per guardare i culi delle ragazze?
È una domanda retorica per una riflessione che di retorico ha fin troppo, ma esemplifica alla perfezione il retaggio patriarcale che incancrenisce e prolifera, e impedisce uno sviluppo decoroso del Paese. Appare piuttosto difficile affrontare aspetti dirimenti come parità dei salari, matrimonio gay, superamento delle quote rosa e diritto alla paternità se tutto ciò che abbiamo da esprimere al riguardo del calcio femminile è un coacervo di stereotipi da repressi sessualmente frustrati. Fortuna che alle donne non interessa, e vanno avanti lo stesso. Forse il timore è che dopo aver imparato il fuorigioco possano mettere gli uomini fuori gioco?
(E comunque non era rigore.)
Emanuele Tanzilli
Immagine di copertina: Digital News