io non ho paura prigionia forzata
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Io non paura” è la messa in scena di una narrazione che scardina la vita e ne fa assaporare la vera essenza. Una lettura che di fronte a tale presente, così instabile e precario, prende la forma dentro le nostre mura domestiche di “una prigionia forzata” o di “una quarantena gradevole”, a seconda di ciascuna prospettiva, e diventa quantomeno necessaria. La prigionia fisica e forzata, presente nel romanzo di Ammaniti, va interpretata quindi non solo come la metafora di una fine bensì la liberazione emotiva verso un nuovo inizio.

Io non ho paura è conosciuto ai più come il terzo romanzo di successo dell’autore Nicolò Ammaniti, edito da Einaudi nel 2001. Oltre al trionfo editoriale, nel 2003 raggiunge la sua fortuna anche a livello cinematografico, nell’omonima pellicola “Io non ho paura“, diretta da Gabriele Salvatores e scritta a due mani dallo stesso Ammaniti e Francesca Marciano.

“Io non ho paura”: la trama in breve

La storia di Ammaniti non può che conquistare qualsiasi tipo di lettore, da quello in erba all’esperto di turno, grazie a una narrazione sostenuta e incalzante che fino alla fine lascia, come si suol dire, “sulle spine”. E il suo successo editoriale così popolare e duraturo ne è certamente la conferma.

Siamo nell’estate del 1978, forse una delle più calde che la nostra penisola ricorda. Quattro case sperdute nel grano fanno da sfondo alla narrazione, incentrata sulle colline e nelle abitazioni di un piccolo paese del sud d’Italia, frutto dell’immaginazione dell’autore, dal nome Acqua Traverse.

I “grandi”, ovvero le persone adulte, stanno tutto il giorno tappati in casa. Le donne, confinate tra camere da letto e cucine alle prese con le quotidiane faccende domestiche; mentre gli uomini si muovono tra divani e balconi, in cerca di riposo, tra un turno e l’altro di lavoro.

Poi ci sono loro, “i piccoli” della storia: sei bambini muniti di piedi veloci, palloni, gessi e biciclette, cercano di sfruttare al meglio la loro estate lontana dai banchi di scuola e dai doveri quotidiani. Le giornate si improvvisano e avanzano tra le distese di grano e la piazza del piccolo paese che sembra essere dimenticato da tutti, persino da Dio. Ed è proprio lì, in mezzo a quella rovente e abbandonata campagna e alle spighe di grano, che si cela un misterioso segreto che cambierà per sempre la vita di Michele Amitrano, voce e volto protagonista dell’intero romanzo. Per Michele, da quel giorno, nulla sarà come prima: è un segreto che fa paura, tanta paura. Un segreto che pesa, dentro e sulle spalle, come un grande macigno.

Il segreto di Michele da due punti di vista

In “Io non ho paura” Michele Amitrano ha solo nove anni, ma si trova catapultato, da un momento all’altro, in “cose da grandi“. La vera paura, quella del mondo degli adulti, non è quella che si prova in attesa delle punizioni de il “Teschio”, il bambino più bullo e arrogante di tutta Acqua Traverse, capace di umiliarti e beffeggiarti in qualsiasi momento.

Si tratta di una sensazione nuova, scoperta quel giorno, in quel buco sotterraneo vicino alla cascina abbondata sopra la collina. Sono stati gli occhi di Filippo, quel coetaneo sconosciuto, rapito e tenuto rinchiuso in quella gabbia, a causare in Michele quel timore. Un’angoscia da cui cerca in principio di liberarsi, poi conviverci, trasformandosi in una prigionia parallela, da cui scappare si può, ma solo con tanta forza.

La prigionia è quindi duplice: da una parte quella emotiva di Michele, costretto a custodire un segreto più grande di lui, dall’altra quella fisica di Filippo, rinchiuso in un buco senza sapere la reale causa. Ma oltre a ciò anche il punto di vista narrativo risulta svilupparsi su un cammino binario. Da un lato i grandi e dall’altro Michele.

I primi, afflitti da sensi di colpa, rivendicazioni sociali, e riscatti economici, cercano giorno e notte di trovare una soluzioni e rimedi che spesso sono amari e angusti. Sull’altra sponda invece c’è Michele che con lo sguardo ancora ingenuo di un bambino tenta di evitare la tragedia incombente. Tenta di diventare amico, confidente, e il porto sicuro di Filippo, ricordandosi ogni volta, mentre scende nel buco: “io non ho paura”.

La paura è liberazione emotiva in tempi di “prigionia forzata”

“Io non ho paura” è la frase che Michele ripete a se stesso come un monito per riuscire nella sua missione personale: salvare Filippo, la sua causa nobile, dalla quale solo i codardi e i traditori possono fuggire.

La paura se, come abbiamo detto, in principio è limite, poi diviene convivenza, si tramuta in forza fino a giungere allo stadio più elevato: una liberazione emotiva da una prigionia forzata, fatta né di buchi, né di catene, ma di ansie ed insicurezze.

“Io non ho paura” da atto individualistico ad atto collettivo, sullo sfondo di uno scenario angusto e ridente, dominante e dominato, ha quasi il profumo di un addio all’età infantile, fatta di giochi, stupore, ingenuità e mostri sotto il letto. Si insinua in ciascuno di noi, sotto la pelle e dentro il cuore, come un macigno, come quello che Michele portava sulle spalle.

Marta Barbera

Marta Barbera
Classe 1997, nata e cresciuta a Monza, ma milanese per necessità. Laureata in Scienze Umanistiche per la Comunicazione, attualmente studentessa del corso magistrale in Editoria, Culture della Comunicazione e della Moda presso l'Università degli Studi di Milano. Amante delle lingue, dell'arte e della letteratura. Correre è la mia valvola di sfogo, scrivere il luogo dove trovo pace.

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