Foodora è un’azienda tedesca che consegna cibo a domicilio, in Italia è sbarcata nel 2015, ma solo qualche settimana fa l’opinione pubblica pare essersi accorta di come la gig economy stia trasformando il mondo del lavoro. Il Tribunale del lavoro di Torino ha respinto il ricorso di sei fattorini-ciclisti per l’interruzione del rapporto lavorativo dopo le proteste di due anni fa. Era il 2016, e già allora si chiedevano maggiori tutele, trattamenti economici e normativi più equi. I vuoti legislativi, immensi, mettono in difficoltà la magistratura, costretta a legiferare su tematiche complesse, spesso poco comprese e agitate come bandierine da questo o quel sindacato, da questo o quel partito politico.
Foodora è la punta dell’iceberg della gig economy, il perfetto esempio dell’evoluzione del mondo del lavoro.
«Studio. Posso lavorare una decina di ore la settimana. Con loro posso farlo in base alle mie richieste. Non sono sfruttatori. E sono il futuro». Le parole di un anonimo rider torinese, fattorino di Foodora, raccolte da La Stampa in un’intervista di fine 2016, raccontano perfettamente cosa s’intenda per gig economy e perché contrastarla sia una presa di posizione inutile, oltre che inefficace. Il termine gig economy, traducibile in “economia a richiesta”, è stato utilizzato per la prima volta nel 2015 da Hillary Clinton, durante la sua campagna elettorale, e nel corso degli anni successivi è stato utilizzato con sempre maggiore frequenza da tutti i media. Si può parlare di gig economy quando un individuo svolge un lavoro saltuario, una prestazione su richiesta, a chiamata, per guadagnarsi da vivere o incrementare le proprie entrate. Il “gig” era il cosiddetto ingaggio di una serata nel mondo della musica Jazz. Dopo l’esplosione di internet la gig economy si è imposta anche in Italia, diventando, oggi, un cosiddetto elefante nella stanza.
Secondo l’ISTAT, nel 2016 in Italia un milione e ottocentomila persone erano coinvolte nel “lavoro accessorio”. Un miliardo di euro di fatturato.
L’indagine statistica si riferiva solamente ai lavoratori retribuiti tramite voucher, aboliti per evitare il referendum proposto dalla CGIL, ma fornisce un quadro ugualmente chiaro su quanta sia la mole di risorse umane ed economiche che gravita intorno al lavoro occasionale. In questo panorama redditizio e al contempo complesso si muove l’app Foodora, che insieme ad altre analoghe ha ulteriormente incrementato l’utenza e l’attenzione mediatica sul futuro del mondo del lavoro. Nel 2016, in ottobre, l’Italia si è accorta per la prima volta delle problematiche legate alla gig economy, prima ignorate, quando i fattorini di Foodora di Torino e Milano hanno incrociato gambe e braccia, smettendo di pedalare e pretendendo tutele lavorative e dignità economica e umana.
La sentenza del Tribunale del lavoro di Torino su Foodora
L’effetto concreto delle proteste dell’ottobre 2016 è stato il “licenziamento” di alcuni dei ciclisti rivoltosi, la cessazione del rapporto di lavoro: l’algoritmo di Foodora non ha più permesso loro di ricevere ordini e chiamate. Le virgolette che delimitano il termine sono motivate dalla sentenza del Tribunale del lavoro di Torino di qualche settimana fa: sei fattorini di Foodora, privati del loro lavoro, hanno fatto causa all’azienda tedesca, pretendendo maggiori tutele contrattuali e personali.
Secondo l’accusa infatti Foodora avrebbe utilizzato la geolocalizzazione dell’app anche al di fuori dell’orario di lavoro, valutando costantemente i fattorini e chiedendone la costante disponibilità. Queste dinamiche qualificherebbero i sei ragazzi come veri e propri dipendenti di Foodora, tesi non supportata da questa prima sentenza in Italia sulla gig economy, che ha dato ragione all’azienda tedesca: i fattorini sono quindi lavoratori autonomi e Foodora può interrompere il rapporto di lavoro in qualunque momento desideri. Il deposito delle motivazioni della sentenza è previsto e atteso dopo 60 giorni e getterà più luce su una situazione resa complessa dall’assenza di precedenti in Italia e dalla totale mancanza di norme e regolamentazioni ad hoc.
Al riguardo, è la stessa società a puntualizzare quanto segue: “In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, Foodora ribadisce che nessun rider coinvolto nelle richieste di ottobre scorso è stato licenziato e a tutti era stata data la possibilità di rinnovare il contratto in scadenza. Come spiegato in aula, inoltre, ribadiamo che l’applicazione utilizzata sullo smartphone poteva accedere, attraverso il gps, soltanto al dato sulla geolocalizzazione, istantaneo e non memorizzato”.
Che prospettive si aprono per il futuro di Foodora in Italia?
Sul futuro che verrà le prime reazioni sono di Andrea Ruta, 27enne, uno degli ex-fattorini di Foodora licenziati che ha portato in tribunale l’azienda tedesca. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera di Torino il ragazzo non solo ha espresso la sua amarezza per l’esito della sentenza, ma soprattutto ha messo in luce le problematiche che il caso Foodora ha suscitato: la totale assenza di normative in questo nuovo ambito economico e lavorativo, la geolocalizzazione dell’app, molto simile al tanto temuto braccialetto di Amazon e, infine, la totale arbitrarietà della paga che è passata da 5€ all’ora a 3,70€ a consegna.
Nel merito della necessità di nuove normative hanno cominciato a muoversi i sindacati, mentre le istituzioni titubano e gli unici partiti politici a menzionare la gig economy e i suoi effetti sono Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico.
A fine 2017 la CGIL ipotizzava una concreta regolamentazione degli algoritmi di Foodora e di altre app, discriminanti nei confronti dei lavoratori. L’azienda tedesca ha ovviamente negato il funzionamento discriminatorio dell’algoritmo, sostenendo che nessuno dei fattorini fosse stato licenziato dopo le proteste del 2016.
Gli stessi fattorini hanno deciso dunque di organizzarsi in modo autonomo e qualche giorno dopo la sentenza di Torino hanno organizzato una prima assemblea a Bologna, una “Internazionale” alla quale hanno partecipato anche riders europei, testimoni di come all’estero la situazione non sia differente. La speranza comune è che il Parlamento Europeo prenda una posizione netta, dando normative e regolamentazioni ai colossi della gig economy.
In Italia, la strada è ancora lunga.
Andrea Massera