Nel 2017, all’indomani dell’arresto dell’ex produttore cinematografico Harvey Weinstein, Alyssa Milano lancia la campagna social “#MeToo”, invitando le donne vittime di abusi o di violenza sessuale a postare la propria testimonianza. È l’inizio del movimento omonimo: una bomba mediatica che, in pochissimo tempo, è riuscita a produrre un incredibile effetto domino, propagandosi ben oltre i confini americani. Nel 2019, qualcosa di analogo è accaduto in Nigeria: Busola Dakolo denuncia il duplice episodio di violenza subito per mano del Pastore Biodun Fatoyinbo.
Il “caso Weinstein” nigeriano
Durante la lunga intervista trasmessa dal canale YNaija, la nota fotografa nigeriana racconta la violenza subita all’età di 16 anni da Biodun Fatoyinbo, pastore della chiesa pentacostale da lei frequentata.
Nelle due ore di trasmissione, Busola Dakolo ripercorre con estrema lucidità le tappe che portarono il Pastore ad abusare di lei per ben due volte. Al di là della crudezza del racconto, ciò che colpisce è l’atteggiamento difensivo assunto dalla donna: appare immediatamente evidente come Busola non stia semplicemente riportando quanto accaduto: sta piuttosto pronunciando un’arringa per difendersi dalle accuse implicite ed esplicite avanzate contro di lei subito dopo la denuncia.
Un atteggiamento che colpisce: si tratta di una chiara rappresentazione di un contesto sociale e giudiziario che rovescia i ruoli, assegnando il peso della colpa alla vittima e proteggendo oltre ogni ragionevole limite gli uomini. Uno schema rappresentativo e narrativo evidentemente difficile da abbattere, substrato comune e concausa della nascita del movimento #MeToo.
Dopo l’intervista a YNaija molte altre donne hanno colto l’occasione – alcune pubblicamente, altre no – per raccontare non solo gli abusi subiti dallo stesso Pastore, ma anche per denunciare la generale ed asfissiante “cultura del silenzio”, costruita e perpetrata intorno agli episodi di violenza.
Dal #MeToo al #ChurchToo Movement
A Busola Dakolo viene dunque riconosciuto il merito di aver fatto da apripista per quello che potrebbe divenire nel tempo un movimento strutturato di lotta, pacifica ma continua, e di sostegno alle donne sopravvissute alla violenza. Così come, ulteriore merito, è quello di aver scoperchiato mediaticamente il vaso di Pandora degli abusi legati al mondo religioso, riaccendendo i riflettori anche sull’americano #ChuchToo Movement, creato sulla falsariga del #MeToo.
Molti tra giornalisti e ascoltatori, in seguito al racconto della Dakolo, hanno messo insieme una rapida associazione di idee, legando il suo caso al movimento americano. In realtà, la fotografa non menzionerà mai durante le due ore di intervista il #ChurchToo Movement, nonostante i numerosissimi punti di contatto con la sua vicenda.
È Emily Joy a lanciare il #ChurchToo Movement: alla base di esso vi è l’accusa alla dottrina del Complementarismo, ben diffusa nella Chiesa Evangelica americana, di essere propugnatrice di una rappresentazione – fallocentrica e maschilista erroneamente attribuita ai testi sacri – del rapporto tra generi, in cui la ripartizione dei ruoli sociali assegnati a uomo e donna si sostanzia, rispettivamente, nel comandare e nell’obbedire.
Tale dottrina viene ripetutamente citata dalle attiviste del movimento #ChurchToo quale causa degli episodi di violenza avvenuti all’interno della comunità evangelica americana in quanto, essendo basata sull’assunzione della superiorità degli uomini nei confronti delle donne, garantirebbe loro una giustificazione (soprattutto morale) per gli atti di violenza commessi: una sorta di “lasciapassare a delinquere” derivante dalla Volontà di Dio.
In questa prospettiva, la frase “devi esser contenta che un uomo di chiesa ti abbia fatto ciò”, pronunciata secondo il racconto di Busola Dakolo dal Pastore Fatoyinbo, rappresenterebbe il fil rouge tra il cosiddetto “caso Weinstein nigeriano” e il #ChurchToo Movement.
Anche il movimento #ChurchToo, al pari del #MeToo, è riuscito in poco tempo a raccogliere centinaia di racconti e a dotarsi di una fitta rete di attiviste. La risonanza è tale da propagarsi anche all’esterno della comunità evangelica raggiungendo quella della Chiesa Afro-americana: viene alla luce un’ulteriore realtà anch’essa sommersa ed estremamente complessa.
Il diritto sul corpo delle donne
Sarebbe comunque troppo comodo ascrivere al solo mondo religioso l’accusa di perpetrare un sistema valoriale che in realtà è comune anche al mondo laico.
Al pari della vicenda di Busola Dakolo e del Movimento #ChurchToo, nel febbraio 2019, l’imprenditrice nord-nigeriana Fakhriyyah Hashim lancia su Twitter l’hashtag #ArewaMeToo dopo aver letto, sullo stesso social, la storia di una ventiquattrenne sopravvissuta agli abusi del fidanzato. L’hashtag viene retwittato per più di 100 volte, aggiungendo, di volta in volta, un’ulteriore storia di violenza e sopravvivenza in un luogo – la Nigeria del nord – in cui religione e cultura giocano un ruolo fondamentale nell’impedire la diffusione e la proliferazione di testimonianze di abusi sessuali per la paura del conseguente stigma sociale.
È dunque nuovamente lo schema del #MeToo a fungere da strumento di ribellione a una cultura volutamente maschilista, che non solo riserva ruoli e posizioni apicali ai soli uomini ma, rovesciando il rapporto vittima-carnefice, nutre de facto il silenzio delle vittime, determinando l’errata convinzione che dal potere – economico o politico – scaturisca una sorta di diritto possessorio da esercitare sul corpo delle donne.
Ciò che viene da chiedersi ora è se l’utilizzo dell’espediente narrativo del #MeToo quale collettore di esperienze e vicende differenti, non favorisca il rischio di annullarne le specificità, danneggiando il sorgere spontaneo e urgente di questi movimenti. Tuttavia, l’utilizzo di un linguaggio e di una piattaforma comuni potenzia enormemente la recettività del fenomeno, permettendogli di allargarsi ed estendersi, libero almeno nella rete, senza alcun confine geografico. Un rischio, pertanto, che vale la pena correre.
Edda Guerra
Edda sei fantastica, complimenti ?