“Ne La donna alla finestra, Amy Adams, in realtà non è prigioniera della stanze della sua abitazione ma delle stanze della sua mente”
Perdonate, ma chi scrive, non vedeva l’ora di dire questa frase, forse l’unica cosa vagamente intelligente che troverete in questa rece e che meglio coglie il senso metaforico del film.
Perché è sempre così, se sei su un giornale devi seguire una linea editoriale, dare una precisa fisionomia al pezzo, un po’ come la sceneggiatura di un film, altrimenti non è un pezzo degno “giornalisticamente” parlando. Ma chi siamo noi per farvi attendere la ciccia. Diciamolo subito cosa rende bello questo film: la psicologia e i rimandi meta-narrativi.
Si perché la pellicola funziona grazie alla scrittura e alla direzione allucinogena che mostra gli eventi come appaiono agli occhi e nella mente del protagonista, una finestra dove reale e irreale palleggiano, si confondono, dimensioni che collassano l’una sull’altra, per un’apocalisse cognitiva innescata da una condizione di isolamento in quanto la donna non può uscire di casa per una patologia sociale nota come agorafobia – su cui ci torneremo fra un minuto.
Occhio alla trama de La donna alla finestra
Ok, qualche accenno alla trama: Amy Adams è una psicologa affetta da una invalidante patologia sociale che la blocca in casa. Da lì assiste al presunto assassinio della sua vicina. Presunto perché nessuno le crede e, anzi, la donna viene accusata di essersi inventata tutto (tra alcool, pillole etc… sembra probabile).
Inoltre, il fascino sta anche nel fatto che è un film difficile da incasellare almeno in uno dei rigorosi sottogeneri masturbatori da enciclopedia cinematografica: è sia un thriller psicologico, un film drammatico, un home invasion, uno slasher sul finale, ma soprattutto un noir.
E poi è un film didattico perché – e qui torniamo al discorso della malattia – lei è affetta da agorafobia che abbiamo scoperto non essere paura degli spazi aperti come la parola suggerisce (dal greco agora = piazza ) ma paura di stare lontano da casa, ovvero il luogo per eccellenza “sicuro” che rappresenta l’espediente narrativo alla base del film. Peccato che incomprensibilmente questo stesse espediente che, ribadiamo, innesca la miccia della trama non avrà alcun peso alla fine della stessa e, anzi, da punto fondamentale verrà derubricato nel terzo atto come un mal di testa qualunque. Bastava del paracetamolo, toh!
Amy Adams è la casa, la casa è Amy Adams
“La donna alla finestra” ma poteva anche intitolarsi:
“la donna con la reflex”;
“la donna col paracetamolo”;
“La donna con problemi di alcool”;
“La donna che sta chiusa in casa”;
“La donna che vede dalla finestra un assassinio e nessuno le crede”;
La donna. La donna. La protagonista è lei, d’altronde. Ma non solo. Lo è anche la casa. Una sua estensione, un suo guscio, il suo scudo, il suo cannocchiale con cui condivide un cordone ombelicale artificiale che la donna non riesce a recidere.
E, appunto, questa casa lussuosa, dal soffitto altissimo, diventerà, invero, l’unico angolo di osservazione del mondo esterno, sia per noi che per la protagonista (che è, di fatto, il nostro sguardo). La casa è l’ultimo punto attraverso il quale scrutare maniacalmente l’esterno, l’ultimo appiglio verso un fluire sociale vivo ma spaventoso e lontano, un salvagente psicologico che permette alla protagonista di non farsi trascinare totalmente nei cavernosi angoli di una mente lasciata in solitudine.
Ma la casa è anche il luogo da proteggere dall’invasore. Ecco che qui ci troviamo a vivere e riattualizzare una delle paure ancestrali umane: quella di essere privato di ciò che gli appartiene. Non crediamo abbia a che fare con il concetto di proprietà ma qualcosa di primordiale, etologico, inteso come nido, riparo da proteggere e, per questo, intoccabile.
Questi sono i temi – e hanno già il loro peso nell’economia di una pellicola che ha già il suo valore estetico – che alimenteranno i dialoghi con i vostri amici per almeno una buona oretta se sono dei buoni interlocutori.
La donna alla finestra e il sound design strepitoso
Protagonista, al pari della Adams e della casa, è il suono, il lavoro di sound design che detta le sequenze e da enfasi e declamo alle stesse. In questo senso, ci rivediamo molto dei maestri del tempo che fu. Sul piano estetico La donna alla finestra di Netflix è, infatti, un ritorno al passato, la riproposizione del cinema di genere di svariati decenni fa, di fronte al quale i cultori del cinema che fu non potranno che calarsi le braghe.
Belle diverse trovate visive, forse un po’ troppo auto(re)referenziale ma va bene così.
E anche questo è un commento che potevamo fare a meno, ma vi ricordate il discorso della struttura e della linea editoriale di inizio pezzo?
E il resto del cast de La donna alla finestra?
Passando al resto del cast, Gary Oldman (che interpreta il marito della donna assassinata dopo la prova straordinaria in Mank) si vede troppo poco. Ma si vedrebbe troppo poco anche se avesse tutti i centoquaranta minuti di screentime, anche se abitasse con noi, ventiquattro ore in sua compagnia non basterebbero. Gary Oldman, è dio, che è quasi l’anagramma di GOD of MAN, scommettiamo non a caso.
Anche per il parco attori si nota che il film sia nato per il grande schermo. Stona, infatti, rispetto alla mediocrità del parco filmico di Netflix. Cioè è imbarazzante davvero per contrasto la differenza, chi scrive aveva dimenticato di essere su Netflix.
In sintesi, per chiudere con una chiosa che si rispetti, La donna alla finestra da quella sensazione di essere un film molto colto dal punta di vista visivo, un fiume che ripercorre lo stile e i linguaggi del cinema che fu con protagonisti e labirinti narrativi nuovi, a tratti forzati, e che alimenta in chi osserva la consapevolezza ti essersi perso qualcosa di bello.
E forse è il momento che lo recuperi. Sì, dico a te.
Enrico Ciccarelli