“Tutti i cittadini devono essere trattati in modo uguale davanti alla legge”: ministri, deputati e senatori inclusi. Lo sa bene Piercamillo Davigo, neo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, già da tempo conosciuto per non risparmiarsi mai in radicali prese di posizione nei confronti della classe dirigente. Nessuno sconto per i corrotti da quando, negli anni Novanta, insieme agli altri magistrati dell’inchiesta giudiziaria “Mani Pulite”, ha portato a galla un impero di tangenti e finanziamenti illeciti che collegava i più alti livelli del mondo politico con quello imprenditoriale italiano. In questi anni il sessantacinquenne membro della magistratura ha conservato e ribadito in moltissime occasioni le sue perplessità nei confronti del panorama politico, lasciando intendere che, a suo dire, l’unica cosa a cui pose fine la vicenda di “Tangentopoli” fu il termine Prima Repubblica, mentre il sistema di corruzione tra poteri forti è sopravvissuto quasi integralmente.
Negli ultimi giorni, proprio in occasione della sua nomina a presidente, Davigo è stato al centro di una bufera di polemiche, a seguito di alcune interviste rilasciate a testate giornalistiche ed enti televisivi nelle quali si scagliava nuovamente contro i politici e, in particolare, contro il governo Renzi. Probabilmente, molti credevano che la nuova carica istituzionale potesse ridimensionare le sue posizioni – per lo meno nelle dichiarazioni pubbliche – e invece, nella più totale coerenza intellettuale, ha conservato immutato lo stesso tono pungente e critico.
Lo scorso 19 aprile, nella trasmissione di La7 condotta da Giovanni Floris, ha affermato «tutta la classe politica, o quasi tutta, per lo meno i governi che si sono avvicendati fino al 2002, hanno fatto di tutto non per contrastare la corruzione, quanto più per contrastare le indagini di processo», alludendo anche alla capacità che l’omertà e il silenzio hanno di costruire carriere istituzionali. E ancora, appena tre giorni dopo, su Il Corriere della sera, «I politici non hanno smesso di rubare. Hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto. Dicono cose tipo: ‘Con i nostri soldi facciamo quello che ci pare.’ Ma non sono soldi loro; sono dei contribuenti». In sintesi, secondo Davigo: se in passato sia governi di destra sia di sinistra hanno ostacolato la magistratura oggi la situazione non è migliore, perché il Pd «fa le stesse cose», con un linguaggio leggermente differente.
Le reazioni non si sono fatte attendere soprattutto da parte di Pd, Ncd e Forza Italia, che, con severe critiche, lo accusano di generalizzare e di voler alzare la tensione tra magistratura e classe dirigente in una dimensione che è già, effettivamente, particolarmente irrequieta, dopo la polemica sul taglio delle ferie per i giudici e la questione per la divulgazione delle intercettazioni nel caso Guidi. Anche in questo, Davigo è molto netto: «La pubblicazione di intercettazioni non pertinenti è già disciplinata dal reato di diffamazione. Dunque, non vedo il problema».
Le perplessità sulle dichiarazioni radicali del neo presidente, però, arrivano anche dall’interno della magistratura stessa. Secondo il vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura Giovanni Legnini «Le parole del presidente Anm rischiano di alimentare un conflitto di cui la magistratura e il Paese non hanno alcun bisogno».
Non sono dello stesso avviso, invece, il Movimento 5 Stelle e Sinistra Italiana, che mostrano sostegno al magistrato e alle sue dichiarazioni seppur drammatiche. Luigi di Maio esprime «solidarietà a Davigo per gli attacchi che sta ricevendo» e aggiunge che «Invece di attaccare uno dei simboli dell’inchiesta Mani Pulite, i partiti dovrebbero guardarsi in casa loro e fare pulizia».
Il pericolo sarebbe, dunque, quello di ledere i rapporti tra i diversi poteri dello Stato con le sue dichiarazioni eccessive, poteri che, a detta dello stesso Davigo, sono fisiologicamente separati e dunque destinati alla tensione. Insomma, secondo alcuni politologi, la battaglia tra legalità e potere politico è una delle caratteristiche ontologiche della democrazia costituzionale e sarebbe preoccupante se questo conflitto istituzionale si spegnesse.
“Mani Pulite” ha segnato un passaggio importante nel panorama della nostra Repubblica, scoperchiando un sistema di corruzione nel quale la politica, quanto mai lontana dall’essere luogo di proposte per la collettività, rivelava la sua faccia oscura e collusa in un circolo criminale di soldi, affari, ricatti, tangenti e mafie.
È certo che quel grave episodio, insieme all’emergere di altri scandali politici successivi (basti pensare al recentissimo caso di Roma Capitale), abbia favorito la perdita di credibilità della politica e la conseguente mitizzazione del ruolo della magistratura, rischiando, talvolta, di cadere nel “giustizialismo” e nell’accanimento giudiziario.
È anche vero però che il pericolo, come più volte sottolineato da Davigo e da altri esponenti della giustizia, è che i magistrati abbiano scoperto solo una piccola parte della struttura illecita di tangentopoli e che la gran fetta di questa “cupola” si sia conservata intatta grazie a un vespaio di segreti e ricatti tra gli stessi protagonisti corrotti della Prima Repubblica, molti dei quali continuerebbero a sedere indisturbati sulle proprie poltrone di potere.
È quindi diritto e, soprattutto, dovere della magistratura vigilare scrupolosamente affinché il comportamento del potere politico rientri nella piena legalità, eventualmente cercando l’importante collaborazione con gli esponenti della classe dirigente che – si suppone – siano i primi a voler estirpare il germe della collusione tra poteri.
Almeno a parole, sembra essere questo l’atteggiamento di Matteo Renzi, che a seguito delle accuse di Davigo ha ribadito, in un’intervista di Repubblica, una linea intransigente contro la corruzione «I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l’opposto di ciò che serve all’Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli», riaffermando la necessità di velocizzare i tempi della giustizia.
Non è il primo né sicuramente sarà l’ultimo episodio di polemica tra politici e magistrati e questo è probabilmente un bene, purché il confronto istituzionale, per quanto rigoroso e duro, sia davvero il luogo del dibattito in cui misurare la sostanza della democrazia e dei suoi rappresentanti, e non uno sterile scontro tra potere giudiziario e quello politico.
Rosa Uliassi