Che cos’hanno in comune le manifestazioni di Extinction Rebellion e il femminismo? Il disastro climatico e l’anticapitalismo? Apparentemente non molto. In realtà la critica al patriarcato e al capitalismo, in quanto sistemi caratterizzati dalle disuguaglianze di genere, razza e classe, portata avanti dalla teoria femminista abbraccia tutta una serie di settori. Uno di questi è la cosiddetta economia femminista.

Che cos’è l’economia femminista?

Ne abbiamo parlato con Federica Giardini, come lei stessa specifica, una filosofa più che un’economista. Professoressa dell’Università Roma Tre, Federica Giardini rivendica la necessità di riappropriarsi dell’economia e «di riaprire un pensiero e un’esperienza dell’economico. Perché siamo tutti immersi nell’economia ma non necessariamente ne facciamo esperienza».

«Per vari motivi: siamo trascinati da dinamiche macroeconomiche che ci sfuggono, sulle quali pensiamo di non poter incidere e forse che non riteniamo nemmeno di poter capire;» prosegue «deleghiamo così ad esperti le questioni che ci vengono presentate come inaggirabili – credit crunch, spread, quantitative easing etc. – e come decisive nel decidere cosa possiamo e non possiamo fare nel quotidiano».

Mentre l’economia neoliberale tipica del capitalismo si concentra sulla catena produttiva, partendo dal presupposto che l’obiettivo principale dell’homo economicus sia massimizzare il proprio utile, l’economia femminista propone la messa al centro delle relazioni interpersonali e del principio di reciprocità sulla quale si basano.

«In realtà l’economia non è prerogativa degli economisti, è uno dei modi in cui l’essere umano ha da sempre regolato la propria vita con altri. Ecco perché un primo passo di questa riappropriazione sta nel pensare in termini di scambio.

Vivere significa stare in relazione con altri: parliamo, amiamo e anche abbiamo bisogni che vanno soddisfatti. Non tutto accade a mezzo denaro: il neonato non paga sua madre per essere allattato; l’amica non paga l’amica per essere ascoltata. Non interviene il denaro, ma la parola sì: un appello, un saper chiedere, ma anche un saper capire di cosa abbiamo bisogno. La misura dello scambio è linguistica prima ancora che monetaria», spiega ancora Federica Giardini.

Ripensare l’economia senza capitalismo

Uno dei primi obiettivi dell’economia femminista è stato proprio quello di ridefinire il concetto stesso di lavoro, attraverso la nominazione di tutte quelle attività lavorative tradizionalmente naturalizzate (ovvero, non pagate o pagate poco) dall’economia di mercato.

In quest’ultima categoria rientra tutto ciò che definiamo lavoro di cura: educazione dei figli, assistenza agli anziani e agli invalidi, lavoro domestico come pulizia, cucinare e fare il bucato, assistenza emotiva eccetera.

Che sia salariato o no, il lavoro di cura e riproduzione è necessario alla continuazione della vita umana. Possiamo dire che è proprio l’invisibilizzazione e femminilizzazione di questo lavoro uno dei capisaldi del capitalismo.

Rivendicare la parità salariale non è sufficiente per cambiare il sistema di sfruttamento, cosí come l’organico, il fair trade e il riciclaggio non possono essere la risposta al disastro climatico che abbiamo prodotto.

Il cambiamento passa attraverso la liberazione di tutte le soggettività escluse dall’economia formale. Non solo le donne delle pulizie e badanti dunque, ma i lavoratori e lavoratrici dell’industria agricola e del tessile, immigrati e nei paesi del “Terzo Mondo”, cosí come la natura stessa, saccheggiata e abusata dall’industria e dall’inquinamento.

La restituzione come paradigma nell’economia femminista

Il concetto di reciprocità che vede la società come una rete di individui interdipendenti è strettamente legato a quello di restituzione. Ridefinire il lavoro in una prospettiva femminista significa rendere visibili tutte quelle soggettività che hanno sempre dato senza ricevere, il cui valore non è mai stato riconosciuto, e restituire loro qualcosa.

Restituzione e non reddito (nel senso di salario in termini monetari) è il concetto che dovrebbe essere il “principio di orientamento per ripensare l’economia”.

«Questa idea è nata dall’esperienza collettiva che abbiamo portato avanti al Teatro Valle, tra il 2011 e il 2014. Una situazione estremamente viva, il teatro era sempre aperto e in attività. Tutti contribuivano in modi molto diversi. Nessuno era stipendiato, la partecipazione avveniva per convinzione nell’avventura che si stava compiendo. A un certo punto ci siamo posti il problema della sostenibilità di quel quotidiano. Anziché pensare in termini di quantità di denaro da distribuire a chi faceva qualcosa, abbiamo cominciato un percorso di autoinchiesta sui bisogni e desideri e su come organizzarci per rispondere ad essi.

L’idea era: questo spazio è aperto e vivo perché ci siamo tutti e ciascuna; per continuare, ciascuno deve essere messo in condizione di ripresentarsi ogni mattina, con entusiasmo; come possiamo restituire quella vitalità?

Le risposte sono state le più varie, dal bisogno di uno spazio o un tempo per sé, al denaro, alla collaborazione di altri etc. Nella prospettiva ampia del problema del reddito è stata aperta la possibilità di risposte plurali e personali».

Restituire dunque in termini di scambio, di tempo, di partecipazione, non alla maniera tipicamente intesa nel capitalismo. Mettere la vita al centro significa riconoscere un ruolo centrale a tutte quelle attivita il cui obiettivo è la riproduzione e la cura dell’essere umano, ma anche della natura, del non umano, «perché torni a contribuire alla vita umana e del pianeta».

A che serve una prospettiva femminista sull’economia?

«Se consideriamo che l’economia è un’esperienza ordinaria, quotidiana, rispetto alla quale possiamo confrontarci, ecco che si apre anche la prospettiva delle invenzioni, dei nuovi modi di organizzarsi per rispondere ai nostri bisogni».

La teoria femminista mette in luce i limiti di considerare l’economia al pari della matematica o della fisica, una scienza oggettiva presuntamente neutrale in mano a pochi esperti, rivendicando invece la necessità di ripensare l’economia in termini politici.

Al paradigma della produzione si contrappone quello della riproduzione, alla sociosfera si contrappone la biosfera, con l’intento di restituire alla scienza economica la sua dimensione profondamente umana, sociale, ma soprattutto ecologica, politica ed etica.

«La Spagna sull’onda del grande movimento degli Indignados ha sviluppato mille forme diverse; anche in Italia abbiamo diversi campi di sperimentazione aperti, tra i quali una riflessione sugli strumenti digitali che possono funzionare negli scambi. Secondo l’ecofemminista Ariel Salleh, situazioni di economia vissuta e alternativa sono già realizzate dalla maggioranza globale dei lavoratori e delle lavoratrici – indigeni, contadini e chi svolge lavoro di cura».

Dunque non stiamo parlando di utopie, ma di realtà esistenti e possibilmente del futuro del nostro pianeta.

Claudia Tatangelo

Quotidiano indipendente online di ispirazione ambientalista, femminista, non-violenta, antirazzista e antifascista.

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