Un piccolo passo indietro per Luigi Di Maio, un grande balzo per il M5S
Fonte immagine: Il Tempo

La notizia del passo indietro, da capo politico del M5S, di Luigi Di Maio non ha suscitato quel gigantesco clamore che in molti, lui compreso, si aspettavano. Sarà stato il clima elettorale pre-Emilia Romagna, sarà che il M5S non è più quella forza in grado di spostare gli equilibri; la cosa certa è che per l’ancora Ministro degli Esteri, a parte qualche frase di circostanza, nessuno ha davvero versato una lacrima.

Fatto sta che il passo indietro potrebbe aprire una nuova fase per il Movimento, il quale attualmente si trova in uno stato davvero catatonico e preoccupante. Il 4 marzo 2018 è ormai una data ancor più lontana di quanto possa sembrare e il tempo per agire, per cercare di porre fine alla continua emorragia di voti in uscita è davvero poco. I grillini dovranno scegliere se istituzionalizzarsi definitivamente, prendendo le distanze da certe posizioni, redigendo un progetto politico a lungo termine, oppure accettare di uscire dai palazzi, tornando all’opposizione di un sempre più probabile governo di ultra-destra.

Un passo indietro dal sapore amaro

Da diverso tempo, sia la base elettorale che parlamentare del Movimento attendevano il passo indietro di Luigi Di Maio, soprattutto a causa dei disastrosi risultati elettorali. Dopo il celeberrimo 32% del 4 marzo, ogni tornata elettorale, sia regionale che europea, non ha dato i frutti sperati. Dopo l’ennesima batosta in Umbria, voci di corridoio fecero trapelare la notizia relativa alla volontà del buon Luigi di lasciare la guida del Movimento, rimettendo ogni decisione agli Stati Generali di marzo.

La notizia dunque circolava già da diversi giorni, se non mesi. Di Maio, 33 anni, era descritto come provato da tutte le sconfitte elettorali subite nel corso di un anno e, abbandonato da molti parlamentari, quelli rimasti attorno a lui gli parevano ostili. Molti criticavano la sua gestione, nonostante gli riconoscessero il merito di aver portato il partito a un risultato storico e mai registrato.

In molti non hanno mai digerito l’alleanza di governo con la Lega prima e con il PD poi. Nell’aprile 2018, a dialogo in corso, alcuni consiglieri gli suggerirono di puntare sulla propaganda per aumentare i consensi, affinché Mattarella indicasse il voto come unica strada percorribile. Successivamente, a giochi ormai conclusi, gli stessi insistettero per liquidare l’alleanza subito dopo aver concepito una nuova legge elettorale. Luigi Di Maio, anche per evitare la nascita di un nuovo “Nazareno”, decise di mettere a tacere i detrattori e di battezzare l’esperienza giallo-verde.

Dal punto di vista programmatico, non si può negare che Luigi Di Maio sia riuscito a portare a casa i due principali punti della sua linea: il reddito di cittadinanza e il taglio dei parlamentari. Obiettivi raggiunti a caro prezzo, tra cui quello di allearsi con due forze politiche totalmente agli antipodi che, a detta di molti, hanno sconfessato la coerenza del Movimento.

In particolare, è stato altamente schizofrenico il suo rapporto con Matteo Salvini, prima alleato e poi avversario. All’inizio l’alleanza sembrava essere diventata amicizia, dopo la crisi di agosto la cordialità ha lasciato spazio a un odio cieco e ingiustificato. Ciò che però non ha mai convinto è stata la reticenza di Luigi a lasciare il Carroccio per i democratici.

I massimi disaccordi con la base elettorale e con i parlamentari, infatti, provengono proprio dal suo rapporto con il leader del Carroccio. Basti pensare alla votazione sul processo Diciotti, dove la consultazione con la base fu solo una farsa, o al voto dei parlamentari grillini per allearsi con il Partito Democratico mentre il Ministro stava tentando di ricucire il rapporto con la Lega. Non è un segreto che Luigi Di Maio non abbia mai digerito l’esperienza giallo-rossa, preferendo di gran lunga fare il Premier in un eventuale governo giallo-verde bis, anche perché la figura di Conte, da semplice sconosciuto, nel corso del tempo è diventata davvero ingombrante per la leadership del ragazzo di Pomigliano.

Ciò che il buon Di Maio non ha avuto modo di arginare è stata l’ascesa del leader del Carroccio, durante il Conte I, a spese proprio del M5S. Nel corso di un anno, i grillini hanno perso la metà del proprio elettorato, più di cinque milioni di voti, e hanno subito batoste elettorali proprio per mano di una Lega sempre più forte e presente anche nelle zone ad assoluto predominio grillino (Sardegna, Basilicata e ora Calabria).

Non è solo per questi motivi che la leadership dell’ex capo politico M5S ha vacillato. L’incapacità di stringere attorno a sé tutti i pezzi grossi grillini e soprattutto le frange più lontane ha portato, nel corso del tempo, a maturare all’interno del partito una certa autonomia decisionale che ha prodotto dichiarazioni, decisioni e azioni contrastanti e ambigue, sicuramente poco gratificanti per la tenuta e la credibilità dell’intera formazione. Basti pensare ai frequenti attacchi di Di Battista nei suoi confronti.

Attaccato su tutti i fronti, anche dai suoi stessi amici e alleati, con diverse responsabilità sul groppone, il Ministro, stanco, ha deciso di lasciare nonostante Beppe Grillo gli avesse suggerito di aspettare. In occasione del passo indietro da capo politico M5S, Luigi ha tenuto un discorso davvero significativo, sicuramente il migliore della sua carriera politica.

Il discorso di Luigi Di Maio e le “serpi” in seno al M5S

Il lungo discorso di Luigi Di Maio di fronte ai facilitatori regionali del M5S ha costituito un momento rilevante nel percorso di transizione del movimento a partito. Innanzitutto i facilitatori hanno l’obiettivo, nemmeno tanto velato, di rappresentare al meglio le esigenze territoriali, proprio come dei segretari provinciali. Un’azione che avvicina il Movimento ai partiti tradizionali. Non saranno le parole di Luigi Di Maio e i numerosi video sulle differenze tra il M5S e gli altri “partiti novecenteschi” a nascondere la trasformazione da movimento collettivo, con una particolare connessione tra elettori ed eletti, a una organizzazione che si sta istituzionalizzando, formata da funzionari che si distribuiscono capillarmente sul territorio, e dotata di una macchina burocratica come tutti gli altri partiti.

Il discorso di Luigi Di Maio è stato interessante per due motivi: per lo scarico di tutte le responsabilità alla presenza di nemici interni e soprattutto per la totale assenza di autocritica.

La sensazione è quella di voler indicare come motivo principale del fallimento del progetto grillino la presenza continua e fastidiosa di inaffidabili detrattori, i quali hanno per molto tempo destabilizzato gli equilibri interni. Di Maio, quindi, tra un abbraccio e l’altro, ha voluto sottolineare la sua volontà di non lasciare il M5S per dedicarsi alla lotta dei nemici dall’interno per poi tornare. Senza il fardello della leadership, l’autore del passo indietro potrà misurarsi contro i nemici interni senza dare nell’occhio.

Tuttavia, il discorso di Di Maio ha anche un effetto politico esterno agli ambienti grillini. Esso ha avuto il preciso obiettivo di mettere al riparo da bufere e critiche lo stesso Governo, soprattutto a fronte del voto regionale in Calabria e in Emilia.

Con il passo indietro di Luigi Di Maio, il quale in alcuni casi ha rappresentato il parafulmine dei problemi interni del partito e di scontenti politici legati alla suddivisione dei ruoli in questo esecutivo, il Conte II può beneficiare di un periodo di distensione, figlio della ricerca di una nuova guida. In molti bramano per un posto accanto al nuovo capo, sicuramente da ricercare tra le anime più forti e popolari del Movimento.

Il futuro del M5S

Dopo il passo indietro di Luigi Di Maio, si è ufficialmente aperto il periodo di transizione del M5S. Il reggente sarà Vito Crimi, in qualità di membro più anziano del comitato dei garanti.

Nel frattempo, sono molti gli interrogativi che gravitano attorno al futuro del partito e del suo ex leader. Il primo, a seconda dell’esito degli Stati Generali di marzo, potrà procedere verso una sua istituzionalizzazione, con un programma più maturo e soprattutto con degli obiettivi ben delineati, avvicinandosi a un alveo ideologico e abbandonando le turbe adolescenziali del primo M5S.

Si parla di un collegio eletto dagli iscritti ma anche di un “eterno ritorno”, quello di Alessandro Di Battista. In questo caso, il Movimento potrebbe tornare quello delle origini, senza una ragione sociale di fondo, pronto solo a sostenere le battaglie elettoralmente più appetibili. Nel caso di una sua vittoria, si prospetterebbe un decisivo indebolimento del Conte bis, mai digerito al numero due del M5S.

Non sono da sottovalutare anche i nomi di Stefano Patuanelli, un fedelissimo di Conte, e di Paola Taverna, grillina della prima ora.

La parola d’ordine che in questi giorni sembrerebbe circolare all’interno del partito sarebbe quella di “collegialità”. I parlamentari grillini imputano al Ministro degli Esteri una gestione troppo verticistica e incompatibile con l’anima del movimento, nato per assecondare le richieste di tutti senza trascendere nel leaderismo.

Seppur sembrerebbe certo il passo indietro di Luigi Di Maio, alcune malelingue credono che il suo “addio” risponda a una precisa strategia, studiata a tavolino con il guru Casaleggio, per estirpare le erbacce e tornare in tempo per riprendersi lo scettro e spingere il M5S verso le elezioni anticipate, dopo aver approvato la legge proporzionale. In poche parole questi mesi servirebbero a Di Maio per riacquistare legittimità all’interno del partito, lasciando sfogare i peones, per prepararsi alle elezioni, alleandosi non con il Partito Democratico, bensì con Fratelli d’Italia e la Lega.

Un progetto ambizioso, che confermerebbe qualcosa di molto lontano dalla presunta natura “popolare” del M5S. Un movimento anti-sistema che assume dei connotati aziendalisti? Una formazione contro il sistema che, in realtà, è gestito con mentalità imprenditoriale? Seppur solamente ipotesi il ritorno di Luigi Di Maio, dopo il passo indietro, sarebbe cosa certa secondo gli ambienti grillini. D’altronde, sarebbe davvero sciocco credere che un ragazzo di 33 anni, il quale ha fatto della politica la sua unica professione, sarebbe pronto a rinunciarvi così facilmente.

Ciò che più preme conoscere è come il partito si presenterà dopo marzo. Porterà a compimento la sua istituzionalizzazione, oppure l’anima irriverente dei grillini della prima ora, di coloro che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, trionferà ancora una volta? Agli Stati Generali l’ardua sentenza.

Donatello D’Andrea

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