Quando, ormai sempre più raramente, sentiamo parlare di proletariato, la nostra mente disorientata si ritrova a vagare nelle immagini letterarie più lontane, rievocando le schiere di operai rinchiusi nelle “diaboliche, buie officine” raccontate da Charles Dickens nell’Inghilterra vittoriana. Ma siamo davvero tutti convinti che il proletariato sia confinato a un passato così remoto? A ben vedere, riacquistando lentamente lucidità, ci rendiamo conto che non è poi un concetto tanto vetusto e che oggi potrebbe riguardare la condizione dei disoccupati, dei numerosi lavoratori poco specializzati e retribuiti al di sotto di qualsiasi salario minimo, dei disperati che si riversano in imbarcazioni di fortuna per raggiungere l’Europa. E i tanti giovani neolaureati italiani, che pur dopo anni di studi, sono oggi alle prese con una miriade di lavoretti precari e sottopagati? Che fine fanno i sacrifici e le conoscenze di questi nuovi proletari?
Le condizioni dei neolaureati italiani
Queste domande sono venute fuori dopo essermi imbattuto nell’ultima indagine AlmaLaurea, la quale, intervistando circa il 90% di tutti i laureati degli atenei italiani, contattati tramite un questionario online e interviste telefoniche, permette di ricostruire agevolmente il rapporto tra percorso di studi compiuto e prime occupazioni lavorative dei neolaureati italiani. Emerge un quadro chiaro e variegato del lavoro giovanile e ci conferma, innanzitutto, come già ampiamente avvertito nel senso comune, che i risultati migliori in termini occupazionali li hanno i lavoratori che hanno conseguito una laurea scientifica piuttosto che una umanistica.
Infatti, risalta subito che tra i più avvantaggiati nel trovare lavoro, a tre anni dal conseguimento del titolo, c’è chi sceglie ingegneria e le relative sottoclassi, con stipendi sopra la media generale dei neolaureati italiani (nel 2018, a tre anni dal titolo, lavora il 94% dei neolaureati con uno stipendio medio mensile di 1.611 euro e con un contratto a tempo indeterminato nel 65,5% dei casi). Discorso altrettanto positivo per chi sceglie le discipline sanitarie come scienze infermieristiche e ostetriche oppure la stessa medicina e chirurgia, con le quali, nel 2018, a tre anni dal titolo, lavora il 93% dei neolaureati, ma con formule contrattuali meno tutelate rispetto ai colleghi ingegneri (per il 30,5% varie forme contrattuali a tempo determinato e per il 45% sotto forma di lavoro autonomo).
Buone prospettive lavorative anche per chi ha studiato discipline economico-aziendali, così come per i laureati in scienze della comunicazione, ma al di sotto della media nazionale, relegate negli ultimi posti della classifica, troviamo classi di laurea come scienze politiche, biologia, storia o filosofia, peggio giurisprudenza. Infatti, tra i giovani giuristi, a tre anni dalla laurea, nel paese definito “la culla del diritto” lavora solo il 58% dei neolaureati (ad ogni modo è bene precisare che il dato è ottenuto considerando come “occupati” chiunque dichiari di svolgere un’attività, anche di formazione, purché retribuita).
Da neolaureati a lavoratori sottopagati e occasionali
Ci ritroviamo, quindi, ad assistere inermi a una partita impari: da un lato laureati di serie A e dall’altro laureati di serie B. In ogni caso, questi dati ci appaiono facilmente riscontrabili nella quotidianità. Infatti, basta incontrare l’amico del liceo, che con una laurea in ingegneria chimica in tasca da qualche mese sta già lavorando “ad un innovativo progetto di riciclo dei polimeri per un’azienda leader nel settore”, mentre tu, con la tua laurea 110 e lode in archeologia, ti stai affannando, con retribuzione assente o comunque ampiamente sotto il salario minimo, in estenuanti ricerche e infinite relazioni per raggiungere un tanto agognato dottorato di ricerca.
E ancora attualissimo resta il problema del “dove vivi” così come restano discriminanti le differenze di genere. Infatti, riporta la sintesi del rapporto che: “si confermano significative le tradizionali differenze di genere e soprattutto territoriali, testimoniando, ceteris paribus, la migliore collocazione degli uomini (8,2% di probabilità in più di lavorare rispetto alle donne) e di quanti risiedono o hanno studiato al nord (per quanto riguarda la residenza, +34,1% di probabilità di essere occupati rispetto a quanti risiedono al sud; per quanto riguarda la ripartizione geografica di studio, +44,9% di probabilità di essere occupati rispetto al Sud)”.
Ci ritroviamo, come sempre, in un’Italia a due velocità, laddove persino le “pessimistiche” previsioni del prof. Pasquale Saraceno, fondatore della SVIMEZ, risalenti ai primi anni ’70 e riproposte a fine 2019 dal ministro per il Sud e la Coesione Territoriale Peppe Provenzano, sono state disattese.
Ma quello che qui interessa, più che fare classifiche, è capire cosa c’è dietro quei numeri. Ci sono delle persone. Ci sono delle ragazze e dei ragazzi che spesso con sacrifici e impegno hanno portato a termine i loro studi e che, usciti dagli applausi ricevuti nell’Aula Magna il giorno della loro proclamazione, si ritrovano catapultati in una guerriglia sociale: la lotta di classe tra precari. C’è sempre qualcuno con un titolo in più, con un po’ di esperienza in più, più specializzato di te. E una convinzione si fa sempre più spazio nella tua mente: “il problema sono io. Avrei dovuto scegliere un’altra facoltà”.
In effetti, ogni cosa sembrerebbe confermare questa dura insinuazione, ma intanto si cerca lavoro con quello che si ha e si moltiplicano gli invii di curriculum e si partecipa ai più deludenti colloqui. Si ha l’impressione di non essere mai pronti, di non saper fare nulla. Allora pensi: “Ma sì, forse devo solo studiare di più”. Iniziano i corsi di perfezionamento, i master, gli attestati di lingua straniera. Una continua specializzazione, una lenta spersonalizzazione, un lungo percorso verso il professionista flessibile, specializzato, smart, tanto ricercato dal mercato del lavoro.
In realtà, a ben vedere la vera “flessibilità” ricercata dai datori di lavoro è quella relativa alla formula contrattuale dell’occupazione. Riprendendo il rapporto AlmaLaurea ci imbattiamo in percentuali bulgare di tirocini, praticantati, stage, apprendistati, contratti di somministrazione, lavoro intermittente o a chiamata, lavoro ripartito, contratto a progetto, collaborazione occasionale. Un ventaglio infinito di opportunità di assunzione che, nella realtà, sono solo il preludio a una continua instabilità economica, a stipendi inferiori rispetto al salario minimo e a una incapacità di poter progettare la propria vita. La nuova classe di neolaureati italiani si è quindi sempre più “proletarizzata”, non è tutelata, guadagna poco ed è spaventata dal futuro.
Nel complessivo, comunque, il dato davvero allarmante è che, in alcuni casi, gli stipendi sono inferiori rispetto a quelli del 2010. Infatti, anche se questi salari, per i neolaureati italiani, ormai disillusi e de-ideologizzati, sembrano una manna dal cielo, in realtà sono in generale tra i più bassi d’Europa e rappresentano uno dei tanti segni del regresso economico del nostro Paese. Come è emerso dal rapporto OCSE, i salari italiani, contrariamente a quello che sta succedendo nel resto d’Europa, non sono fermi, ma piuttosto in diminuzione. Diminuiscono durante ma anche dopo la crisi, un dato che dimostra come i benefici della tanto annunciata “ripresa” siano sbilanciati tutti a favore dei profitti. E lo stesso rapporto OCSE mostra che i salari diminuiscono nonostante il valore aggiunto aumenti.
Perché è necessario un salario minimo legale
L’unico dato positivo che sembra emergere è che “il 23,7% degli italiani riconduce la causa del rancore diffuso di questi anni alla crescente disuguaglianza nei redditi e nelle opportunità di lavoro”, tanto è vero che tre italiani su quattro sarebbero favorevoli all’introduzione di un salario minimo legale. A rivelarlo è il Censis nel 53esimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese, sottolineando come “il 12,2% degli occupati in Italia è a rischio povertà” e tra i maggiori sostenitori del provvedimento “la percentuale è più alta tra gli occupati (75,3%) e tra chi dispone di un reddito basso (l’80,7% con un reddito fino a 15.000 euro annui) o medio-basso (il 78,7% con un reddito compreso tra 15.000 e 30.000 euro annui)”.
In pratica, pur di lavorare si è disposti a tutto, a un salario basso e diritti ridotti all’osso, è il ricatto del “o dentro o fuori”, che potrebbe trovare un freno in un intervento legislativo: l’introduzione del salario minimo legale, come è avvenuto nel resto d’Europa, a tutela proprio dei lavoratori più giovani, dei meno tutelati e dei meno specializzati.
A tal proposito, la nota INAPP per il Presidente della XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei Deputati riporta il caso della Germania, dove nel 2015 è stata introdotta una norma che ha fissato il salario minimo legale per via legislativa a 8,5 € l’ora (corrispondenti, per il tempo pieno, a 1.440 € mensili), con l’obiettivo di rivederlo ogni due anni. Nel 2018 è stato portato a 8,84 € all’ora (1.498 €/mese), mentre nel 2019 a 9,19 € l’ora. Nel 2020 si prevede di incrementarlo a 9,35 €. Il livello è stato fissato considerando il 48% del salario mediano del lavoro a tempo pieno.
La nota citata rivela che “la misura ha ridotto notevolmente la disuguaglianza nei livelli salariali, aumentando il salario dei lavoratori meno retribuiti. Non a caso, sono i lavoratori nei primi due decili di salario quelli che registrano la maggiore crescita salariale nel biennio 2014-2015 (+27% e +14% rispettivamente). Hanno beneficiato in modo particolare del salario minimo nazionale i lavoratori meno qualificati, le donne, i giovani e i più anziani, i lavoratori part time e quelli nelle piccole-medie imprese operanti nei servizi”.
In Italia, al momento, una discussione sul tema è aperta, persino Matteo Renzi nel corso della sua campagna elettorale aveva annunciato questa misura; inoltre sono stati presentati dei disegni di legge sia dal M5S che dal PD. È chiaro però che, come per qualsiasi misura di politica economica, l’efficacia dipenderà da come verrà regolamentata, cioè dalla scelta politica sul tema.
Ad ogni modo, sarebbe sufficiente partire da una soglia minima tabellare fissata a 10 euro l’ora a cui aggiungere contributi, ferie, tredicesima mensilità e malattie. Non solo, è poi possibile stabilire il salario minimo legale a complemento della contrattazione collettiva e non in sostituzione a essa. È pur vero che le politiche per gli “ultimi” non scendono dal cielo, è necessario che vi sia una battaglia per la ricomposizione del mondo del lavoro, per la rivendicazione di salari minimi più elevati e, nel nostro caso, per la sua introduzione.
Questa misura realizzabile, realistica e già in discussione al Parlamento, sarebbe un modo per garantire a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici una soglia di dignità da cui non si scende, e dovrebbe diventare lo slogan proprio dei neolaureati italiani, per arrestare alla base il meccanismo di sfruttamento che schiaccia le vite di milioni di persone per il profitto di pochi.
Dalla nostra abbiamo non solo la forza della gioventù ma soprattutto i giusti strumenti per creare opinione, argomentazioni e aggregazione (in questo, il neonato movimento delle Sardine ne è un esempio). In questa direzione va senz’altro l’ultimo libro pubblicato da Marta Fana e Simone Fana, Basta salari da fame!, che mette a nudo il fallimento delle politiche contrattuali e salariali di questi anni e che ben si presterebbe, come suggerito da Paolo Pagliaro, a essere il manifesto di questa generazione.
Francesco Biondi
Bisogna ridare dignita’ ai lavoratori non si può prendere uno stipendio di 1100 con 192 ore di lavoro al mese con dentro bonus renzi detrazioni per figlio a carico e assegni familiari inclusi.
Non se ne può più.
SALRIO MINIMO subito (ma deve essere fatto bene).
Speriamo che a sto giro sto governo lo faccia .
Finalmente se ne sta parlando. Ci hanno dipinto come i giovani che non hanno voglia di lavorare… e invece vogliamo lavorare e come… ma non a 650e dalla mattina alla sera, senza diritti, con la paura che il contratto non venga rinnovato
In tutti gli articoli di giornali molto spesso non si indica se lo stipendio è lordo o netto.
La differenza é notevole. Chissà perché tutti si dimenticano di indicarlo.