Pier Paolo Pasolini durante un’intervista concessa alla giornalista Luisella Re di Stampa Sera il 9 gennaio 1975 dichiarò:
«Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però: basti sapere che è una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie».
L’autore di origine bolognese già dal 1972 si cimentò nella scrittura dell’opera che avrebbe raccolto in sé un’intera esistenza, la sua ambizione fu quella di pubblicare un romanzo di circa duemila pagine.
«Deve essere un lungo romanzo, di almeno duemila pagine. S’intitolerà Petrolio. Ci sono tutti i problemi di questi venti anni della nostra vita italiana politica, amministrativa, della crisi della nostra repubblica: con il petrolio sullo sfondo come grande protagonista della divisione internazionale del lavoro, del mondo del capitale che è quello che determina poi questa crisi, le nostre sofferenze, le nostre immaturità, le nostre debolezze, e insieme le condizioni di sudditanza della nostra borghesia, del nostro presuntuoso neocapitalismo. Ci sarà dentro tutto, e ci saranno vari protagonisti. Ma il protagonista principale sarà un dirigente industriale in crisi». (Pasolini in una lettera a Paolo Volponi).
Ma il concepimento dell’opera fu stroncato dall’efferato e misterioso omicidio di Pier Paolo Pasolini avvenuto nella notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 nei pressi dell’Idroscalo di Ostia. La tragica fine di questa «storia sbagliata» – così venne definita la vita di Pasolini da De André – fece sì che il romanzo, di cui permasero soltanto circa cinquecento pagine scandite in trentuno «Appunti», venne pubblicato postumo da Einaudi.
Pertanto, soltanto nel 1992 il pubblico poté leggere Petrolio: l’opera ultima, immane, infernale e incompiuta d’uno dei maggiori intellettuali italiani.
«Questo romanzo non comincia». (Pier Paolo Pasolini).
Petrolio: un romanzo di erotismo e di deformazione
Pier Paolo Pasolini sin dalla prima pagina di Petrolio esplicita il suo intento programmatico di scrivere un «Satyricon moderno»: un’opera aperta, intesa come forma-progetto, impura, e persino potenzialmente infinita. Infatti, sia Petronio che Pasolini – con le debite distinzioni stilistiche e storico-culturali – plasmano mediante un perturbante soggettivismo ogni pagina delle proprie opere, senza dare adito né all’obiettività equanime del verismo né al protagonismo di enigmatici narratori sussidiari. Entrambi concepiscono un realismo fittizio simulando il verosimile e innestando su una matrice di fondatezza le personali visioni e istanze di narratori e uomini.
In un tale dinamismo anarchico, il romanzo pasoliniano è la risultante d’un travagliato processo di vivificazione dell’oggetto-libro e di una rabbiosa denuncia della complicità omertosa dei fruitori, figlia delle aride convenzionalità della letteratura di consumo. Pertanto, Pasolini decostruisce i canoni costitutivi della forma-romanzo e rifiuta categoricamente gli ammiccamenti narrativi della letteratura di stampo borghese. Ragion per cui il linguaggio che adopera a volte è saggistico, a volte è lirico, a volte è triviale ed erotico, a volte è estremamente articolato e caustico. Così lo scrittore inventa nuove forme espressive e struttura il romanzo in funzione d’una logica che soppianta ogni possibilità d’incasellamento. Lascia che il materiale s’accumuli su se stesso, che si sovrapponga in modo da creare polisemie e molteplici gradazioni letterarie e non. Petrolio appare, quindi, come un romanzo sui generis: lo specchio d’una realtà frammentata, torbida, imprevedibile e fortemente contraddittoria.
L’incipit di Petrolio è un vero e proprio atto di cannibalismo letterario: Pasolini vive brutalmente la genesi del romanzo in quanto gestazione vitalistica e organicistica che però non sfocia nel magma caotico d’una fusione tra scrittore e scritto, bensì trapassa nella sua antitesi, ovvero in un processo di autofagia dell’ego.
«Nello stesso tempo in cui progettavo e scrivevo il romanzo, cioè ricercavo il senso della realtà e ne prendevo possesso, proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire. Morire nella mia creazione […] mi presi e mi smembrai. […] Dopo essermi ricostruito, mi smembrai. Dovevo essere tutti». (Pier Paolo Pasolini).
Dunque, Petrolio assume le ambigue sembianze d’un romanzo di formazione/deformazione e in tale esperimento di frantumazione letteraria Pasolini compone e ricompone il proprio corpo come un demiurgo-carnefice. Nel romanzo tale scissione si materializza in due entità inconciliabilmente simmetriche: da una parte Carlo di Polis, l’arrivista e obbediente ingegnere piccolo-borghese, dall’altra Carlo di Tetis, proiezione del suo inconscio sregolato ed effigie d’una libido bestiale in comunione con il mondo naturale e divincolata dalle norme sociali perbeniste.
Così come l’apollineo e il dionisiaco di Nietzsche: sono due aspetti antitetici che al contempo si compenetrano. Difatti, la frattura allegorica messa in atto da Pasolini rappresenta la consapevolezza delle problematicità scismatiche dell’io moderno, costantemente in bilico tra la spettacolarizzazione narcisistica e la negazione del corpo, tra l’autenticità primigenia e la castrante civiltà borghese.
Lungo questo dualismo il corpo in quanto medium simbolico e l’espressione erotica divengono scandaglio e riflesso del potere-ombra: sia elementi integranti delle sovrastrutture alienanti della società, sia elementi d’ingovernabile alterità e di contro-potere. In virtù di ciò nel romanzo il linguaggio erotico si carica di un’aggressività e di una licenziosità che in alcune pagine scardinano i limiti di sopportazione e d’auto-censura borghesi
Dunque, Pier Paolo Pasolini allo snaturamento delle pulsioni corporee scaturito dalla pervasiva ideologia borghese, contrappone un vitalismo estremo, che non rimanda a una mera smania individuale o alla mercificazione dei rapporti umani, bensì asserisce la stringente necessità d’esperienze totalizzanti e collettive, conformemente a una radicale revisione dell’etica sociale e del vivere comune. La mendace patina di libertà democratica preservata dal sistema borghese, in verità, annichilisce e vanifica le istanze corporee e spirituali, coartando pertanto il soggetto – ormai nevrotico – a far defluire le pulsioni e le emozioni in prestabiliti paradigmi di sfogo. In ciò Pasolini confessa intimamente il proprio desiderio di ricerca sia d’una alterità primordiale nel mondo contadino e del sottoproletariato (soprattutto nella serie di appunti danteschi intitolati Visione del Merda), sia della liberazione dell’omosessualità dal senso di colpa e dalla marginalizzazione.
In conclusione, Petrolio si configura come un dispositivo in grado di evidenziare ciò che solitamente resta taciuto: le perversioni, l’assurdo e l’osceno. Non a caso le nuances e l’indefinibilità di genere del romanzo significano un’alternativa all’ipocrisia e al processo d’irrigidimento dei ruoli sessuali – in conformità al binarismo e all’eteronormatività – che dominano le logiche del potere neocapitalistico, al fine di modellare strategie di controllo edonistico e omologante che inducono i soggetti a moltiplicare i propri bisogni consumistici e a vivere un genocidio culturale e umano nell’inferno d’una eternizzata contemporaneità.
Petrolio non è pornografia, è la violenta contrapposizione tra eros archetipico e desiderio inarrestabile di potere.
Petrolio: il testamento politico di Pier Paolo Pasolini
L’analisi di Pier Paolo Pasolini si situa nell’Italia degli anni ’70 soggiogata da un potere-ombra profondamente corrotto che ha finanche innescato una vera e propria mutazione antropologica: esercizio biopolitico del potere. Petrolio sviscera le fitte trame del regime monopolistico e criminale instaurato dalla Democrazia Cristiana che si propaga e si rinsalda mediante la sua cripticità e spietatezza. Non a caso tutte queste peculiarità si condensano secondo lo scrittore bolognese nella figura di Eugenio Cefis, presidente prima dell’Eni (1967-1971) dopo l’omicidio Mattei e poi della Montedison (1971-1977), che in quegli anni è indubbiamente l’uomo più potente d’Italia.
Nella parte principale del romanzo la vera storia di Cefis s’intreccia con quella inventata del protagonista: Carlo Valletti, un quarantenne ingegnere torinese presso l’Eni cresciuto nella piccola-borghesia cattolica di sinistra.
Il protagonista accresce il proprio potere nell’Eni e ne diviene egli stesso la rappresentazione fulgida tanto nel suo volto pubblico, angelico e cinico di Carlo di Polis, quanto del potere privato, diabolico e sensuale di Carlo di Tetis (in seguito Karl). Quest’ultimo, incarnazione del desiderio, s’approccia ai resti di quell’Italia arcaica e contadina che, nella repentina industrializzazione del secondo dopoguerra, è stata spazzata via. Egli è in grado di provare il desiderio maschile e quello femminile allo stesso tempo, e attraverso il caleidoscopio del sesso ama e conosce tutte le figure di un’Italia mutata nei costumi; lo fa con una brama morbosa di trovare una purezza inviolata e una traccia di vitalismo genuino nell’ombra corrotta della modernità. Infatti, s’abbandona a una serie di atti sessuali (tra cui gli incesti con la madre, le sorelle e la nonna e i rapporti orali consumati con venti ragazzini) che culminano nella perdita dell’organo sessuale maschile e nella sua trasformazione in donna.
Quindi il rapporto con il potere diviene soprattutto di natura (tran)sessuale, infatti per Pasolini nell’ideologia borghese sesso e potere si manifestano nel dominio e nella sottomissione, ed entrambi agiscono come potentissimi fattori che sconquassano silenziosamente la realtà individuale. Ma la trasformazione di Karl da uomo a donna – e da possessore a posseduto dal potere – deriva dalla sua tensione liberatoria in netto contrasto con il fascismo borghese che crea corpi eteronomi plasmati dai modelli docilmente imposti. Pertanto, ognuna di tali metamorfosi evidenzia come la sessualità sia il focus mediante cui si dipana l’esercizio del potere.
Però il potere-ombra non s’insidia esclusivamente nella sessualità, ma anche attraverso cospirazioni, intrallazzi e trame oscure. Nell’intreccio tra politica, affari e denaro, questo potere infido e latente riesce a insinuarsi capillarmente tra le pieghe della società italiana sfuggendo al discorso pubblico e costringendo ogni individuo all’obbedienza finanche con bombe, attentati, omicidi, finti suicidi, sequestri. Infatti, parallelamente la storia di Carlo descrive gli aspetti più loschi della politica italiana. Lavorando all’Eni si relaziona con la maggioranza dei dirigenti collusi dell’azienda, in particolare con il presidente Bonocore e il vicepresidente Troya: si tratta di Enrico Mattei ed Eugenio Cefis. Pasolini così ripercorre la lotta combattuta da Mattei contro la lobby internazionale del petrolio e la vicenda della sua morte misteriosa, ritrovandone il vero movente in una cospirazione ordita, assieme a mafia, gruppi fascisti e massoneria, da Cefis pur di accentrare su di sé tutto il potere politico ed economico.
Dunque, secondo Pier Paolo Pasolini dall’alleanza tra potere politico-industriale, fascismo, massoneria deviata e criminalità organizzata sorge sia un potere neocapitalista multinazionale, sia una sequela di cripto-governi fautori della realpolitik – legittimati dalla collusione «innocente» del compromesso storico tra democristiani e comunisti – intrisi del sangue delle molteplici vittime uccise dallo stragismo perpetuatosi col fine di ripristinare una violata verginità antifascista e di preservare lo status quo.
Scrive Pasolini: «i veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al Potere».
Petrolio è, dunque, un implacabile j’accuse rivolto alla società neocapitalista. Così il petrolio del titolo assume i tratti di una sostanza mefistofelica, ossia una risorsa esauribile su cui l’intera società si poggia in maniera fallace affinché l’autoperpetuantesi ciclo del profitto non si arresti. Per cui le corporation s’invischiano negli affari di Stato, influenzano le economie, corrompono classi dirigenti senza scrupoli, smembrano le comunità, mietono vite e devastano l’ambiente.
Il più grande nemico di Pier Paolo Pasolini è stato indubbiamente il potere e la sua ultima e incompiuta «cattedrale» è il suo testamento politico-spirituale che traccia i frangenti più bui del ‘900 italiano, ma è anche il motivo più plausibile del suo omicidio e della sua delegittimazione intellettuale da parte dei sicofanti al soldo della borghesia italiana.
«L’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale». (Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari).
Gianmario Sabini