«Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, (…) tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, (…) tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva (…) una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione…»
Anna Maria Ortese testimonia così la sua esperienza napoletana, un’immersione totale in una realtà che è riuscita a rapirla tanto da permetterle di diventare l’autrice di un vero e proprio manifesto del post-guerra.
La Ortese, pur non essendo originaria della terra partenopea, in “Il mare non bagna Napoli” ha carpito le bellezze e le tradizioni, dosando quell’atmosfera che rende la città unica e pittoresca con quell’oscurità e quell’ombra che sembra riuscire a divorare fette di vita. Dalla pubblicazione di questa sua raccolta, sarà impossibile non associare il suo nome alla città di Napoli.
Dopo la guerra, in Italia si apriva un’era di scoperte e di chiacchiericci tra un’overdose di prestiti linguistici stranieri (come reazione alla chiusura xenofoba fascista) a nuovi interessi riscoperti in ogni campo. Il voler parlare e discutere di tutto ha fatto sì che anche le opere letterarie passassero sotto le forche caudine e, tra queste, anche la raccolta su Napoli della Ortese.
L’opinione collettiva non fu però positiva, cosa che spinse la scrittrice a trasferirsi per poi ritornare a Napoli solo un’ultima volta e per poche ore. Il suo libro fu giudicato erroneamente “contro Napoli”, giudizio che ha portato la Ortese a chiedersi più volte dove effettivamente avesse sbagliato. Dopo quarant’anni la scrittrice butta giù qualche considerazione riguardo la sua opera.
«La scrittura del Mare» rivela la Ortese «ha un che di esaltato, di febbrile, tende a toni alti, dà nell’allucinato [..] presenta un che di troppo: sono palesi in essa tutti i segni di una autentica nevrosi. Quella nevrosi era la mia.»
La perfezione stilistica, come anche in Elsa Morante e in Elena Ferrante, entra in gioco per costruire un rifugio contro la malvagità del mondo, un modo per estraniarsene ed esplicitare i propri principi e valori. Anna Maria Ortese ha voluto descrivere Napoli in questo modo: è inaccettabile che un luogo così meraviglioso stesse sprofondando nell’oblio, solo così avrebbe potuto riscattarlo.
La tradizione che la precede è forte e ben salda. Tre secoli prima Giordano Bruno ci raccontava nel “Cantus Circeus” e nel “Candelaio” la trasformazione di Napoli da un mondo apparentemente perfetto e fatto di menzogne guidato da Caos, ad una realtà in cui Circe ha ridato il trono ad Astrea, in cui la finzione è stata svelata e le vie napoletane sono ricolme di contraffazione e di turbamenti. Bruno dipinge così il tramonto partenopeo guidato da Don Pedro da Toledo, la Ortese si interesserà invece del degrado e della povertà che si farà viva dopo le guerre mondiali.
Pietro Citati interpreta “Il mare non bagna Napoli” come una vera e propria discesa agli Inferi, una catabasi degna della nostra cultura classica, che ci immerge nelle tenebre per raccontare le storie di pallidissime figure di morti. Anna Maria Ortese riesce, a sua detta, a descrivere il mare, le abitazioni, l’atmosfera, gli oggetti con una forte spettralità che ci viene comunicata dai suoi personaggi, esseri dolci o dal cuore indurito dal tempo, che posano i loro occhi sul teatro che li ospita.
Ad essere perso e sognante è lo sguardo di Anastasia Finizio, una donna che desidera il suo riscatto sociale e si aggrappa ad ogni speranza, anche all’arrivo a Napoli di un suo vecchio pretendente. Anna Maria Ortese costruisce metafore che si stagliano alla perfezione alla classica cartolina della città di Napoli: la vita di Anastasia «sarebbe stata infatti un sogno, come un viottolo che sembra morire in un campo sterrato, e invece, a un tratto, si apre in una piazza piena di gente, con la musica che suona». Questo personaggio sembra travestirsi in una Madame Bovary scaraventata nel secondo novecento, un animo romantico e insoddisfatto che proietta su coloro che la circondano la perfezione che vorrebbe per se stessa. Guarda il mondo sedendo alla finestra, sicura nella sua abitazione, come l’Eveline di Joyce, e come lei vede in un uomo la sicurezza di un futuro migliore, seppur evanescente.
Un altro sguardo che resta denso e pregnante è quello della piccola Eugenia che, con i suoi occhiali nuovi, comprati col sudore e con anni di sacrifici, scopre che il mondo non è come se l’era immaginata. Le macchie informi che aveva sempre visto iniziano a delineare una scenografia e dei colori del tutto nuovi, spiragli di luce deturpati dal degrado post-bellico. Eugenia inizia a vomitare, chissà se per i giramenti di testa dovuti ad un cambiamento così netto della vista o se per la delusione data dalla disillusione. La conclusione di quella che doveva essere la giornata più bella della sua vita si tramuta in tragedia.
Questo episodio dettato dagli occhiali nuovi che permettono, all’improvviso, di eliminare il velo che si interpone tra noi e la realtà, è il giusto esordio di una catena di racconti che hanno, con “La città involontaria” l’inizio della catabasi con la materializzazione del III e IV Granili. Qui si fa forte la presenza della miseria umana, un museo di oscurità, incertezze, precarietà, un excursus di un’opera di denuncia che si affaccia continuamente ad uno stile neo-realista, pur aggrappandosi al suo linguaggio elevato.
Alessia Sicuro