Iscriversi a Facebook è semplicissimo: qualche dato personale, un numero di cellulare o un indirizzo e-mail, una password e l’accettazione delle condizioni del servizio. Il gioco è fatto: siamo connessi al social network.
Facebook «È gratis e lo sarà sempre».
Uno specchietto per le allodole? Assolutamente no. Il social network di Mark Zuckerberg non chiede neanche un centesimo ai suoi utenti, liberi di scorrazzare tra una bacheca e l’altra ventiquattro ore su ventiquattro.
Tuttavia, com’è intuibile, scorrazzando in lungo e in largo ogni utente lascia tracce di sé in giro: un like, un commento, la condivisione di uno stato o di un post, la visualizzazione di un profilo o di una pagina sono tutte azioni utili a individuare chi siamo, cosa facciamo e cosa pensiamo.
Iscrivendoci, abbiamo difatti autorizzato la piattaforma a raccogliere i dati relativi alla nostra attività online e a utilizzarli a scopi commerciali e statistici, fattispecie economicamente fruttuose per il social network più utilizzato al mondo.
Le informazioni cedute a Facebook sono sia quelle concesse in maniera esplicita – ad esempio, quando viene compilata la “carta d’identità virtuale” con orientamento politico, religione, situazione sentimentale eccetera –, sia quelle cedute implicitamente, quindi utilizzando semplicemente la piattaforma. Il social registra con chi/cosa si interagisce di più, quali contenuti vengano cercati e visualizzati più spesso e così via. Ed ecco che, dopo un primo periodo di conoscenza reciproca, Facebook inizia a proporre al suo utente persone da conoscere, pagine da “mipiacciare” e prodotti che potrebbero interessare.
L’utente è diventato un cliente nonché un prodotto, dipende dalla prospettiva.
Se la prospettiva è difatti quella del singolo che utilizza il proprio profilo, allora è un potenziale cliente dei contenuti sponsorizzati dalla piattaforma; diversamente, se la prospettiva è quella del soggetto che vuole sponsorizzare un contenuto, allora l’utente è un prodotto che Facebook “vende” – ad esempio, un’azienda paga una sponsorizzazione per raggiungere un certo target e Facebook vende a questa azienda un pubblico selezionato sulla base delle analisi dell’attività di ognuno. La disumanizzazione è completata: non siamo più persone, ma dati da smistare a fini economici.
La bolla in cui Facebook ci ingabbia è stata costruita da noi stessi, giorno per giorno, click dopo click. E il social network, che non ha nessun interesse a perdere i clienti/prodotti, solletica ogni giorno il nostro interesse con un tuffo nel passato, una storia, un augurio, una celebrazione, il sempiterno invito a condividere cosa stiamo pensando/facendo e dove siamo.
Chiamando in causa il celebre 1984 di Orwell, ogni utente è l’esatto opposto di Winston Smith: mentre lui, protagonista della dimensione romanzesca, tenta in tutti i modi di fuggire al controllo e di ritrovare se stesso, l’utente di Facebook, protagonista della dimensione reale, tenta di in tutti i modi di integrarsi nel sistema di controllo e smarrire se stesso.
Facebook non è gratis e non lo sarà mai.
Semplicemente, chiede un tipo di pagamento che non necessita di una carta di credito; messo via lo scambio prestazione-moneta, propone il baratto: la piattaforma offre i suoi servizi e l’utente in cambio offre se stesso – se sia equo o meno, è una considerazione tutta personale.
È giusto sottolineare che nessuna di queste informazioni è negata al potenziale utente, il quale all’atto di iscrizione è chiamato a leggere le condizioni del servizio e la normativa sui dati; tuttavia, questo “contratto a prestazioni corrispettive” non è negoziabile dalle parti: o si accettano le regole di Facebook o si rinuncia all’iscrizione.
Ma poiché in una società iper-connessa come la nostra, dove la comunicazione tramite social network ha scalzato tutte le altre, può essere problematico non essere iscritti a Facebook, ecco che la possibilità di rifiutare le condizioni e non creare il profilo diviene una prospettiva poco praticabile. Volente o nolente, prima o tardi, per un periodo o per sempre, sono altissime le probabilità che ognuno di noi sia destinato a essere un cliente/prodotto.
È allora necessario approcciarsi in maniera consapevole a questa azienda di cui ogni utente è parte attiva e chiedersi, di volta in volta, quanto si è disposti a condividere con il mondo intero e da quali sponsor si vuole essere raggiunti.
I social network hanno abituato la società odierna a condividere tutto e in ogni momento.
La condivisione pubblica di uno stato d’animo, di un orientamento, di una situazione sentimentale, di un pensiero, dell’indirizzo di casa non sono viste come assurdità, ma come azioni normalissime e anzi in alcuni casi doverose – eppure, se è così normale divulgare a chiunque dati e fatti personali, perché nessuno lo fa per strada, fermando un passante a caso o intrattenendosi con un conoscente?
Nella dimensione reale l’individuo torna ad essere tale e agisce secondo le logiche di una società fatta di carne e ossa, non di scambio di dati. Il punto da non sottovalutare è che la dimensione virtuale è parte integrante della società e incide sul quotidiano di ognuno: ritrovarsi a un evento piuttosto che a un altro perché Facebook ha pensato che potesse interessarci è un banale ma efficace esempio di questo.
Rosa Ciglio