Di che parla veramente “Lo straniero”? Per il lettore europeo, per chi lo ha conosciuto tra i banchi di scuola, magari in una classe di filosofia, Albert Camus parla dell’assurdo dell’esistenza umana. Parla dell’universalità di un’umanità liberata che affronta l’indifferenza cosmica e la crudeltà umana con impudente stoicismo.
Però in realtà “Lo straniero” parla di un delitto, dell’assassinio di un uomo. Sembra quasi un dettaglio, un fatto accidentale, come del resto sembra essere la vita del protagonista.”Lo straniero” non è ambientato a Parigi ma ad Algeri, negli anni della colonizzazione francese e il morto in questione è un arabo. “Un arabo” perché non ha un nome nel racconto, come del resto tutti gli altri arabi che compaiono. Sebbene la parola “arabo” compaia più di venticinque volte nel libro, gli arabi non sono personaggi: nessuno di loro parla e, come il paesaggio, fanno da contorno alla narrazione di Camus.
Fino al 2015, nessuno si era mai chiesto chi fosse questo arabo e perché non parlasse. Lo ha fatto Kamel Daoud, giornalista e scrittore algerino di espressione francese, in “Il caso Meursault”.
Nel romanzo, insignito nel 2016 del premio Goncourt, Daoud da un nome e una storia all’arabo assassinato su quella spiaggia di Algeri: Moussa. Protagonista è Haroun, il fratello di Moussa che, anni dopo, in un bar di Orano, racconta la sua storia. È un caso che Moussa si trovasse su quella spiaggia, nel giorno in questione: nessun regolamento di conti, nessuna sorella dall’onore macchiato. Non c’è una spiegazione per questo omicidio avvenuto sotto il sole cocente.
O meglio una spiegazione c’è, ma è molto più complicata.
«Tutto mi è stato chiaro appena ho imparato a leggere e a scrivere: io avevo mia madre e Meursault aveva perso la sua. Ha ucciso, ma io sapevo che era un suicidio, il suo.»
Così l’omicidio compiuto da Meursault diventa piuttosto un suicidio, una conseguenza del suo essere «figlio di un luogo che non ti ha messo al mondo.» Come già scriveva Edward Said nel 1993, Meursault nella sua accettazione finale della morte, rappresenta la coscienza del colono alla fine di un’epoca. Secondo Said è impossibile separare l’esperienza letteraria di Albert Camus dalla sua storia personale, profondamente legata all’Algeria di uno specifico momento storico, quello della fine della colonizzazione francese durata dal 1830 al 1962.
Meursault diventa così espressione della comunità francese d’Algeria, una comunità che alla fine degli anni ’30 si trova smarrita, senza un posto dove andare e che tuttavia non rinnega il sistema politico metodologicamente ingiusto dell’imperialismo, finendo per scomparire dopo una sanguinosa guerra d’indipendenza.
Ciononostante, la rivendicazione dell’identità, la presa di parola di Daoud in nome di quell’arabo costretto all’anonimato, non è un regolamento di conti. L’opera di Daoud non è un processo letterario a Camus e nemmeno una vendetta, è molto di più. Tutto il racconto non è altro che un gioco di specchi, un eterno dialogo con Camus, che del resto, sembra essere presente nel bar in cui Haroun racconta la sua storia, nelle vesti di una sorta di fantasma.
«Ha ucciso, ma io sapevo che era un suicidio, il suo. Questo però era prima che la scena ruotasse e si invertissero le parti. Prima che mi rendessi conto di quanto lui e io fossimo compagni di cella in una reclusione in cui i corpi non sono altro che costumi.»
Sì perché alla fine ci sarà un altro omicidio e ancora nessun vero processo. La ricerca della verità sulla morte di Moussa si rivela un buco nell’acqua per Haroun e sua madre, trasformandosi in una vendetta a lungo covata. Anni dopo Haroun uccide a sua volta un francese, ma questo non chiude i conti con Meursault, anzi ne apre molti altri e ancora più problematici.
Senza voler essere un libro di storia, “Il caso Meursault” ci porta a scoprire la storia dell’Algeria: la lotta per l’indipendenza, un bagno di sangue dal quale nessuno può uscire con le mani pulite, e la delusione del post-indipendenza. Daoud ci parla dell’Algeria di oggi, un mondo “fra Allah e la noia”, in cui la delusione politica e sociale si è trasformata in un concetto della religione totalizzante.
«Il venerdì non è il giorno in cui Dio si è riposato, è il giorno in cui ha deciso di scappare per non tornare mai più. Lo capisco dal suono vuoto che persiste dopo la preghiera degli uomini, dai loro volti incollati al vetro della supplica. E dal colorito di chi risponde con lo zelo alla paura dell’assurdo.»
Nel 2016 un imam algerino ha accusato Daoud di blasfemia per la sua opera, condannandolo a morte. Nonostante questo, Kamel Daoud continua a vivere nella sua città, Orano, e a scrivere per un giornale locale.
“Il caso Meursault” è un omaggio a Camus e un tentativo di reinserirlo nella storia culturale algerina, dal momento che questo autore è finito nella lista nera dei nazionalisti dopo l’indipendenza. L’opera di Daoud è un romanzo, scritto in maniera magistrale, che getta nuova luce su una narrazione, quella de “Lo straniero” e quella della colonizzazione, che il pubblico europeo da per scontata. Contemporaneamente racconta qualcosa di nuovo, dà espressione a un nuovo gruppo di emarginati, quello degli intellettuali indipendenti in un paese violentato da due guerre civili, nel quale la libertà di espressione è ancora un obiettivo per il quale lottare. Nelle parole di Tahar Djaout, scrittore algerino assassinato nel ’93 da un commando terrorista:
« Il silenzio è la morte;
e tu, se taci muori
e se parli muori
allora di’ e muori… »
Claudia Tatangelo