L’allarme provocato dall’ombra del terrorismo islamico, alimentato dai tragici eventi di Parigi e dai recenti fatti di Bruxelles, ha acceso più che mai il dibattito sulla possibilità di limitare o addirittura abolire la cosiddetta convenzione di Shengen, il trattato internazionale che favorisce la libera circolazione dei cittadini all’interno dell’Europa.
Ogni volta che il continente precipita nel terribile incubo degli attentati e delle stragi di civili, parole come sicurezza dei cittadini e difesa dello stato diventano all’ordine del giorno. Questo allarmismo si traduce spesso in due modi: da un lato, con l’aumento dei finanziamenti destinati a potenziare gli armamenti, dall’altro, con l’invocazione di una maggiore rigidità nei controlli alle frontiere, che limitino l’arrivo di migranti e rifugiati, colpevoli di sbarcare in massa entro i confini europei insieme agli jihadisti.
Vi è, però, un’altra questione fortemente legata alla sicurezza interna, di cui i governi europei non sembrano essersi ancora sufficientemente occupati: da dove provengono le armi utilizzate dai terroristi per compiere gli attentati?
Per cercare di fare chiarezza intorno a questa difficile tematica, dobbiamo guardare a un altro tipo di circolazione, molto più pericolosa e complicata di quella umana: la compra-vendita legale e il traffico illegale di armi.
Secondo un’inchiesta condotta da un gruppo internazionale di giornalisti, l’European Investigative Collaborations, le armi utilizzate dai terroristi dell’ISIS negli attacchi del 2015 in Europa Occidentale sono state acquistate proprio nel cuore del vecchio continente, sfruttando la politica UE sulla libera circolazione delle merci. A partire dal 1991, la Commissione Europea ha potenziato sempre più la regolamentazione del commercio di armi, ma nonostante le numerose limitazioni, nessuno è intervenuto su una particolare categoria, che oggi rappresenta una vera e propria falla, utilizzata dai trafficanti illegali di munizioni.
Sono le armi a salve, dette anche armi giocattolo o «di scena», perché usate nei film o nelle parate, ma anche per chiedere aiuto in caso di pericolo o spaventare animali feroci. Riconoscibili grazie alla presenza di un tappino rosso all’imboccatura della canna, non possono sparare nessun proiettile, ma premendo il grilletto fuoriesce solo un forte rumore, che riproduce quello di uno sparo. È sufficiente essere maggiorenni per acquistarle liberamente online, senza bisogno di detenere alcun porto d’armi o permessi speciali. Eppure, basta leggere alcuni casi di cronaca, anche italiana, per scoprire che con delle modifiche piuttosto semplici, questi oggetti apparentemente innocui si trasformano facilmente in armi vere e proprie.
Così, prodotti acquistati legalmente nel mercato europeo, vengono prima trasformati in munizioni letali e poi rivendute nel mercato nero, arrivando inevitabilmente anche nelle mani dei terroristi. Lo stesso fucile utilizzato da Amedy Coulibaly per seminare paura e morte al supermercato kosher di Parigi, a poche ore dalla strage di Charlie Hebdo, era un vecchio fucile a salve, modificato e riattivato per uccidere.
Mentre la criminalità organizzata sfrutta queste incrinature legislative per portare avanti i propri traffici illegali, è riscontrabile anche un’altra ombra intorno alla circolazione di armi. Si tratta di un affare più che mai di stato, che coinvolge molti paesi occidentali e che riguarda il commercio legale di armamenti nei mercati internazionali.
Tutti i governi percepiscono con spiccata sensibilità il problema dei migranti e dei rifugiati, ma nessuno sembra preoccuparsi di bloccare il traffico di armi con il Medioriente e l’Africa, soprattutto verso quegli “alleati” islamici sospettati di appoggiare direttamente o indirettamente le milizie di jihadisti. Prime ad essere sul banco degli imputati sono l’Arabia Saudita e la Turchia, insieme a Qatar e Kuwait, paesi ambigui nei confronti di Daesh e soprattutto notoriamente autoritari e oppressivi. I governi sunniti si difendono, ma non smentiscono le ingenti donazioni private da parte di alcune grandi famiglie, che sosterrebbero gli estremisti in finanziamenti e in armi. Ma, nonostante i sospetti di collaborazionismo, nonostante l’integralismo religioso e la violazione quotidiana dei diritti umani di centinaia di persone, i governi europei, Francia e Italia per prime, continuano a stipulare con questi paesi accordi politici e a condurvi fiorenti commerci di armi.
Proprio qualche settimana fa, nel silenzio della stampa ufficiale, il Presidente Hollande ha conferito la Legion d’onore, il più alto riconoscimento francese, al ministro dell’interno saudita Mohammed bin Nayef, per – a detta del governo arabo – l’impegno nella lotta al terrorismo e all’estremismo islamico. A quanto pare i numerosi appelli che Amnesty International ha diffuso per denunciare i soprusi e l’integralismo dello stato sunnita non sono bastati a placare i rapporti paradossali che l’Eliseo intrattiene con l’Arabia Saudita.
Forse, alla generosità dell’onorificenza hanno contribuito anche gli 11, 5 miliardi di euro, che la Francia ha guadagnato con i sauditi nel 2015, soprattutto in export militare. L’Italia non è da meno: ai vertici mondiali per l’esportazione di armi, da pochi mesi ha concluso, attraverso Finmeccanica, azienda militare controllata dal governo, un accordo con il Kuwait per 8 miliardi di euro in 28 caccia militari e continua a vendere bombe all’Arabia Saudita. Peccato che nessuno chieda spiegazioni dettagliate sui rapporti ambigui di questi stati con Daesh, ma d’altronde, gli affari sono affari. Insomma, oltre a contribuire all’armamento di regimi autoritari e sanguinari – ricordiamo che l’Arabia Saudita è in guerra contro lo Yemen- il rischio è quello di rifornire indirettamente gli jihadisti delle stesse armi con cui minacciano e terrorizzano l’occidente.
Di questo si sono occupati a lungo gli esponenti del M5S e, a novembre, un gruppo di deputati di Sinistra Italiana ha presentato una mozione a Montecitorio, accusando esplicitamente l’Arabia Saudita e il Qatar, paese in cui tra il 2012 e il 2014 l’Italia ha esportato armi per 146 milioni di euro, di finanziare e appoggiare l’Isis.
Dai dati emerge una grande contraddizione tra la presenza della reale minaccia del terrorismo e la politica estera dei governi occidentali, che per ritardi legislativi e logiche di mercato, continuano ad alimentare direttamente e indirettamente il traffico di armi. Armi che, attraverso organizzazioni di contrabbando o potenti intermediari interni a paesi ritenuti “amici”, diventano gli stessi strumenti di morte che trasformano in trincee le strade delle capitali europee.
Rosa Uliassi