San Lorenzo è un quartiere romano dimenticato da Dio e – soprattutto – dagli amministratori locali, per non dire dallo Stato. Chi lo conosce, fuori da Roma, sa che è zona dove si trova umanità di ogni genere. Nulla di intrinsecamente negativo, sia chiaro: non aveva ancora la fama di quartieri come Quarto Oggiaro o Porta Palazzo. Era “solo” una di quelle zone dove i sindaci vanno, in cerca di visibilità, a farsi una passeggiata per farsi pubblicità tra i cittadini.

Vuole il caso che accada una morte che si presta bene all’uso delle polemiche e dei media – quella di una minorenne, con il contorno di violenze sessuali e di immigrati – ed ecco allora che il quartiere torna ad avere importanza.

Ecco che l’Italia, che finora aveva ignorato tanto l’esistenza e le routine di questi luoghi geograficamente circoscritti quanto le persone che ci vivono e li vivono, scopre che oltre alle vie ed alle piazze celebrati dalle pagine patinate delle guide turistiche e dalle riviste per la gente perbene esistono zone diverse, con le loro problematiche – nessuno le vuole negare – ed anche con dei punti di forza che le narrazioni attuali, improntate alla paura del diverso, del brutto e del povero, non vogliono vedere.

Roma, San Lorenzo. Torino, Santa Giulia. Quartieri a due passi dal centro, a due passi dalle facoltà universitarie e per questo ricettacolo di universitari fuori sede in cerca di prezzi bassi.

Quartieri dove i nuovi abitanti – temporanei, ma che forse decideranno di mettere radici – fanno base ed ai quali restituiscono linfa vitale, perché i vecchi diventano troppo vecchi ed i loro eredi si sono trasferiti da tempo in altri quartieri, più rinomati, più borghesi, migliori. Già, perché non essendoci grandi redditi quello che si vede è anche lo spaccio di droghe di bassa qualità e a basso prezzo. Insieme al grande smercio, stavolta però legale, di quantità rilevanti di alcolici ad un costo decisamente più appetibile per il pubblico giovane rispetto a quello praticato dagli esercizi del vicino centro. Oppure, e qui i confini tra lecito ed illecito sono forse più labili, i numerosi “negozi etnici” che Salvini vorrebbe chiusi entro le 21 in quanto irresistibili calamite per schiamazzatori e teppisti.

Quegli schiamazzatori che, nel nome di una comune povertà – quella povertà che il governo gialloverde ha abolito solo a parole, mentre si appresta a proteggere i grandi evasori –, accolgono ed integrano persone provenienti da ogni parte d’Italia, d’Europa e del mondo, giungendo tra un brindisi ed un tiro di tabacco a realizzare una società ben più gioiosa di quella rabbiosa verso chiunque e terrorizzata dal diverso che viene sbattuta in prima pagina dai politici e dal sistema mediatico. Sì, signori: le persone sono migliori di come vengono raccontate.

Degrado, riqualificazione, vita sociale e integrazione sono parti fondamentali dello stesso ciclo di un quartiere: una situazione “un po’ più complicata” spinge verso il basso i prezzi degli affitti, che attirano così i nuovi poveri, siano essi studenti o immigrati, e questi poveri oltre a qualche soldo in tasca vorrebbero anche una felicità – seppur temporanea – che consenta loro di alleviare il peso fin troppo grave dell’essere vessati dai governi e dalla popolazione. In questo tentativo di dimenticare i problemi nasce spontaneamente l’incontro con i compagni di sventure e la condivisione di quel poco che si ha. Da quei luoghi d’incontro nasce un punto d’interesse per i futuri arrivi ed anche per chi nelle città c’è già, ed ecco che quei quartieri riacquistano valore, grazie proprio a quel valore aggiunto che sono le persone bistrattate.

Eppure c’è un problema evidente: i poveri che cercano il divertimento non vanno bene, non nei quartieri che grazie ad essi riacquistano dignità.

Portano alcolismo, droghe, rumore per le strade dei quartieri, fino a tarda notte. Certamente un gruppo di ventenni con un bottiglione di lambrusco del discount e qualche canna indispettisce di più di un festino a base di vodka premium e cocaina, perché è sotto gli occhi di tutti, perché non sono invidiabili status symbol di chi fa dell’apparire una ragione di vita.

La risposta delle istituzioni qual è, allora? Spostare, ciclicamente, il “degrado” in altri quartieri più disagiati a suon di ordinanze, sempre più in periferia, sempre più lontano dagli occhi delle persone troppo sensibili per vedere persone in cerca di qualche ora di felicità. Nascondere la polvere sotto il tappeto, ignorando volutamente che la montagnola è sempre più alta.

È così che a Torino nel corso degli anni si è spostato il “disagio”, con tutte le sue sfumature tanto illegali quanto legali, prima via dai Murazzi (con un progetto di riqualificazione tuttora fermo), poi in San Salvario, terra strappata dagli hipster alle ronde fascio-leghiste di Borghezio, ma mai alla tradizione di spaccio e prostituzione che anzi si è adattata a convivere con la movida, poi in Santa Giulia, altro borgo in precedenza morente alle spalle del centro, e dopo le ordinanze seguite alla mattanza di piazza San Carlo anche su Borgo Rossini, finora isola di salvezza, si stanno progettando preventivamente le estensioni delle zone soggette alle ordinanze “anti-degrado”.

Ed è sempre così che a Roma il sindaco Raggi propone il divieto di vendita di alcolici dopo le 21 e le limitazioni per i negozietti, che il ministro Salvini annuncia sgomberi e Forze dell’Ordine aggiuntive: una risposta di pancia ad un fatto di cronaca nera.

Quello che non cambia mai? Dirlo è fin troppo semplice: invece di fare una lotta senza quartiere alle ragioni prime di degrado e povertà, si propone la lotta nei quartieri a chi subisce la povertà.

In fondo, non è forse vero che il miglior modo per abolire la povertà è quello di eliminare – o nascondere dallo sguardo – i poveri?

Simone Moricca

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