Dire che l’ultimo romanzo di Don DeLillo (“Il silenzio”, Einaudi, pp.112, traduzione di Federica Aceto) ha un sapore profetico significa dire una verità che rasenta il banale. La trama è striminzita come il numero di pagine: anno 2022, la domenica del Super Bowl; cinque personaggi devono riunirsi per una cena – una coppia su un aereo, altri tre in un appartamento a guardare la partita nell’East Side -, ma un brusco blackout tecnologico sembra paralizzare Manhattan. O forse l’intera New York. Magari tutto il pianeta. All’improvviso gli schermi diventano neri: smartphone, tv, radio, computer sono muti, aerei vanno in avaria, le persone in strada vagano confuse e arrabbiate, perse – come zombie che non sanno più cosa fare, defraudati di quella che fino a pochi secondi prima era stata la loro vita o credevano fosse tale. E poi le strade si svuotano.
Scritto da DeLillo prima dell’arrivo del Coronavirus, “Il silenzio” sembra la premonizione di qualcosa che tutti sentono dentro di sé: la terza guerra mondiale è il mantra. Il collasso inevitabile della civiltà occidentale, l’arresto di uno stile di vita al di sopra delle nostre possibilità che arriva come un clic – un bottone di spegnimento viene premuto e il motore si raffredda seduta stante, il meccanismo è paralizzato e non sa come reagire. L’inimmaginabile (a cui pensiamo in realtà ogni secondo) si palesa in tutta la sua evidenza come se fosse piovuto dal nulla mentre le avvisaglie erano ovunque, ma nessuno ha voluto davvero ammettere che c’era un elefante nella stanza. E di fronte all’ignoto non ci resta altro da fare che ristrutturare tutto il nostro stile di vita, o soccombere.
Ma ne “Il silenzio” DeLillo non dà spiegazioni precise sui motivi del blackout. I suoi personaggi colti e allucinati parlano tanto ma non sembrano umani. E forse non lo sono più. Sono brandelli di umanità che rimarcano la loro disperazione con cinismo né sanno più guardarsi in volto. Sono freddi, emotivamente scarni. Si parlano addosso confusi, seguendo in ciò l’insegnamento di Samuel Beckett ma senza l’ironia quasi metafisica dello scrittore irlandese: DeLillo infatti non fa nulla per farceli stare un pelino simpatici; sono sin troppo simili a noi, o a tante (troppe) persone che conosciamo. Quando i personaggi del Silenzio riferiscono dell’incredibile avvenimento appena accaduto (che sia un incidente aereo, o la possibilità di un attacco terroristico) sembra quasi stiano parlando di qualche estraneo di scarso interesse a cui è successo qualcosa di normalissimo. Il giovane professore di fisica Martin cita in continuazione un testo di Einstein sulla teoria della relatività ristretta: sta evocando uno spirito? Sta pregando? O profetizzando? Come il monolite di “2001 odissea nello spazio” sulla copertina del libro vediamo un cellulare di sbieco che riflette una luce: è un totem? Un oggetto extraterrestre che vuole comunicare con noi? Estraniato dalla sua funzione quotidiana, visto da una prospettiva diversa, questo cellulare è come lo scheletro del dipinto di Holbein il giovane “Gli ambasciatori” del 1533: un dipinto normalissimo con due giovani uomini e degli scaffali ricolmi di oggetti; solo non capiamo cos’è quella scia grigiastra al centro del dipinto. Mettendoci sul lato destro il trucco anamorfico dell’opera si svela: sul pavimento c’è un orribile teschio. La morte incombe sugli uomini e sulla merce, tutto è vanità – l’incrinatura si spalanca su un abisso. Resta solo il silenzio incontaminato.
Chi cerca una storia avvincente, magari con elaborate trame geopolitiche, ne “Il silenzio” non troverà pane per i suoi denti. Come sempre la scrittura dell’autore ottantaquattrenne, riconosciuto maestro di una generazione di scrittori, è rarefatta e distaccata, qui più che mai. DeLillo è un catastrofista quieto, un paranoico ossessivo ma sedato, e tale è rimasto nella vecchiaia: non uno che ha urlato all’apocalisse ma che l’ha sempre descritta come quel whimper di cui parlava Eliot nella poesia “The hollow man”: se il mondo finirà, insomma, non sarà con uno schianto ma con un lamento. La paralisi tecnologica è solo l’ennesima variazione su un’unica, grande ossessione. La nuvola tossica di “Rumore bianco” che imparanoiava il professore Jack Gladney, il percorso a ritroso nell’America del capolavoro “Underworld” tramite una palla da baseball, oggetto feticcio che diventava il passepartout per accedere a tutte le piccole apocalissi dei vari decenni di storia statunitense (i serial killer, i video di omicidi sminuzzati e rivisti alla nausea, la guerra fredda, il razzismo, l’inquinamento e i rifiuti) con il climax della bomba atomica; la ricostruzione storica affidata alla concretizzazione delle teorie del complotto sull’omicidio Kennedy in “Libra”; il collasso sociale visto dall’interno di una limousine in “Cosmopolis”; la sospensione criogenica di “Zero K.” nel sottosuolo tra Russia e Uzbekistan, dove solo pochi ricchi possono permettersi la vita eterna… In questo lungo percorso è quasi normale arrivare a quell’altro 99% di esseri umani che usufruiscono della tecnologia a portata di “tutti” (ancora una volta concentrati a Manhattan, che però è il mondo intero), ritrovatisi in un appartamentino a parlare di niente, a lume di candela, mentre fuori l’apocalisse è già arrivata, o forse sta arrivando – in uno stato di indeterminatezza cronico.
Se qualcosa non funziona ne “Il silenzio” è che, rispetto già a “Zero K.” dove si affrontava un tema come la criogenesi in modo originale, non c’è nulla di nuovo in ciò che qui DeLillo ci sta dicendo, e in come lo sta scrivendo. È una novella che avrebbe potuto tirare fuori dal cassetto trent’anni fa e non cambierebbe nulla. Più che un passo in avanti è la riflessione di un autore senile, riflessione necessaria, quindi, una lettura che merita rispetto e in cambio qualcosa ti dà, ma la differenza rispetto all’amico scrittore Pynchon, che con “La cresta dell’onda” ha parlato dell’America contemporanea, delle bolle speculative e dell’assuefazione tecnologica con un linguaggio fresco e di gran lunga più aderente alla contemporaneità, è evidente.
Resta la maniera inimitabile in cui DeLillo descrive un microcosmo investito da uno tsunami terribile senza mai descriverlo davvero, un’onda che trascina via di colpo l’interfaccia principale di comunicazione e informazione tra gli individui con la stessa velocità repentina con cui è esplosa in questi decenni (“e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso, ogni cosa è fuori uso, completamente totalmente fuori uso”).
La coltre di silenzio ricopre questa piccola porzione di mondo, il cuore nel neurocapitalismo viene smantellato di colpo, e restano solo domande lanciate sull’abisso e il freddo terrore del futuro.
“Martin disse: – Ci troviamo a vivere in una realtà alternativa? L’ho già detto, questo? Un futuro che per il momento non dovrebbe ancora prendere forma?
– Un guasto in una centrale elettrica. Questo è quanto, – disse lei. – Pensiamola in questi termini. Un impianto sulle rive del fiume Hudson.
– Intelligenza artificiale che tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo.
– Tornerà la luce, il riscaldamento riprenderà a funzionare, la nostra mente collettiva sarà di nuovo nel punto dov’era prima, piú o meno, nel giro di un paio di giorni.
– Il futuro artificiale. L’interfaccia neurale.
Era come se stessero evitando di proposito di guardarsi.”