«I ricchi hanno una quantità superflua di cose di cui non hanno bisogno, e che perciò sono trascurate e sciupate, mentre milioni di individui muoiono di fame per mancanza di sostentamento. Se ciascuno possedesse soltanto quello che gli occorre, nessuno sarebbe nel bisogno e tutti vivrebbero soddisfatti». Una delle più celebri frasi di Mahatma Gandhi ingloba tutto il senso di uno dei fenomeni più tristi quanto ambientalmente e socio-economicamente dannosi del ventunesimo secolo: lo spreco. Tale problema rappresenta ormai una costante nella nostro vivere quotidiano, frutto delle società industrializzate e conseguenza di uno stile di vita basato su una condotta anch’essa non più sostenibile. Il consumismo inteso come fenomeno socio-economico tipico dei Paesi sviluppati e consistente nell’acquisto indiscriminato di prodotti atti a soddisfare bisogni perlopiù superflui, indotti dalla pressione della pubblicità e da fenomeni d’imitazione collettiva, rappresenta il mostro sociale del nostro secolo. Siffatto aborto del capitalismo colpisce i più svariati ambiti della società odierna, tra cui quello inerente il cibo. Lo spreco alimentare è una delle tante piaghe frutto dell’avidità umana e contro cui lo stesso uomo sembra non essere in grado di combattere. Non solo le cifre concernenti il fenomeno aumentano costantemente ma, come evidenziato da un recente studio, suddette cifre sono state pericolosamente sottovalutate.
Panoramica sullo sperpero alimentare
Per comprendere a fondo il sempre più dilagante fenomeno dello spreco alimentare occorre discernere quest’ultimo da quello che è un altro problema che, seppur simile, riguarda la dispersione dei prodotti alimentari. Secondo la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, esiste una differenza sostanziale tra perdita di cibo e spreco alimentare. Se per perdita di cibo si intende la riduzione non intenzionale del cibo destinato al consumo umano che deriva dalle inefficienze nella catena di approvvigionamento, il termine spreco alimentare si riferisce invece allo scarto intenzionale di prodotti commestibili, soprattutto da parte di dettaglianti e consumatori, dovuto quindi al comportamento di aziende e privati. La combinazione di questi due fenomeni da luogo a quello che viene definito sperpero alimentare.
Secondo l’ultimo report della FAO “The State of Food and Agricolture” «A livello globale circa il 14% degli alimenti va perso dopo il raccolto e ancor prima di arrivare alla vendita al dettaglio, nel corso delle operazioni svolte nelle aziende agricole, in fase di stoccaggio e durante il trasporto». Frutta e verdura occupano il primo posto nell’amara classifica degli alimenti più sprecati al mondo, seguiti da cereali e legumi. La quantità di tali perdite e sprechi differiscono a seconda delle nazioni in cui avvengono questi fenomeni: nei Paesi industrializzati il sempre più ampio sperpero può essere collegato a cause quali cattiva gestione della temperatura o dell’umidità, eccessivo immagazzinamento o guasti tecnici, mentre nei Paesi a basso reddito il fattore scatenante della perdita consiste nella mancanza di infrastrutture atte alla conservazione del cibo.
«Se vogliamo ridurre la perdita e lo spreco di cibo, allora dobbiamo sapere dove si verificano e dove gli interventi saranno più efficaci». Stando al SOFA 2019 lo sperpero alimentare si auto alimenta durante tutta la fase produttiva, di stoccaggio e di vendita. Nelle aziende produttrici tempi di raccolta inadeguati e condizioni climatiche sfavorevoli fanno sì che parte del cibo non arrivi nei siti di stoccaggio dove l’immagazzinamento inadeguato causa una durata di conservazione dei prodotti più breve. Gravi problemi si verificano anche nel settore della logistica commerciale, in cui «le perdite sono spesso causate da strutture inadeguate, malfunzionamenti tecnici o errori umani» e nell’ambito della vendita al dettaglio dove le cause di tale sperpero sono ascrivibili alla durata di conservazione limitata e alla necessità che i prodotti alimentari soddisfino gli standard estetici in termini di colore, forma e dimensioni e variabilità della domanda. Si arriva infine al vero e proprio spreco alimentare, la dissipazione del cibo da parte dei consumatori spesso causata da cattivi acquisti e pianificazione dei pasti, acquisti in eccesso, confusione sulle etichette e scarsa conservazione in casa.
Ridurre lo sperpero alimentare vorrebbe dire non solo far diminuire i rischi inerenti la sicurezza alimentare e la nutrizione, ma anche e soprattutto abbattere gli impatti negativi che il settore agroalimentare ha sull’ambiente. Una minore perdita di cibo potrebbe migliorare l’uso delle risorse naturali e contribuirebbe alla riduzione delle emissioni di gas serra per unità di cibo consumato.
La FAO sottovaluta le stime sullo spreco alimentare
«Il mondo spreca il doppio del cibo stimato in precedenza e i paesi ricchi sono sproporzionatamente responsabili» si legge sulla rivista scientifica Nature. Un team di ricercatori dell’Università di Wageningen guidato dalla dottoressa Monika van den Bos Verma ha effettuato una ricerca sul modo in cui la ricchezza dei consumatori può influire sullo spreco alimentare. Prendendo in considerazione i dati del 2003 raccolti dall’Organizzazione mondiale della sanità, dalla FAO e da altri enti, i ricercatori hanno creato un set di dati concernente i rifiuti alimentari basato sulla disponibilità degli alimenti, il divario energetico e la ricchezza dei consumatori. «I dati suggeriscono che lo spreco alimentare dei consumatori segue una relazione logaritmica con il benessere di questi ultimi e inizia a emergere quando essi raggiungono una soglia di circa $ 6,70 al giorno di spesa pro capite».
Lo studio, pubblicato sulla rivista PLOS ONE, dimostra che il report sullo sperpero di cibo più citato, secondo cui nel 2005 un terzo di tutti gli alimenti disponibili per il consumo umano è stato sprecato, sottostima gravemente il fenomeno sullo spreco alimentare attribuibile ai consumatori. Seguendo il modello del metabolismo umano e incrociandolo con i dati forniti dall’OMS e dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, è stato scoperto che nel 2015 lo spreco alimentare si attestava a 527 Kcal/giorno pro capite, molto di più delle 214 Kcal/giorno pro capite stimate dalla stessa FAO.
Secondo la ricerca, che ha tenuto conto solo dei due terzi della popolazione mondiale, non includendo grandi Paesi consumatori come gli Stati Uniti d’America, è il Belgio ad aver la maggior quantità di rifiuti alimentari con un valore di spreco alimentare (FW) massimo di 1607 Kcal/giorno pro capite. Le Filippine invece occupano l’ultima posizione con un valore FW di appena 32 Kcal/giorno pro capite.
Per contrastare il problema la FAO fornisce alcuni principi guida per i decisori politici:
- Un focus sulla sicurezza alimentare tenderà a favorire gli interventi da attuare nelle prime fasi della catena di approvvigionamento alimentare, in cui si avvertiranno impatti positivi sulla sicurezza alimentare durante il resto della catena stessa;
- Per la sostenibilità ambientale è meglio intervenire nei punti di perdita critica ovvero quelli che si verificano a monte della catena di approvvigionamento;
- Paesi diversi avranno obiettivi diversi. La posizione in cui si opera, inteso come luogo geografico, è importante quando si perseguono la sicurezza alimentare, gli obiettivi nutrizionali e ambientali. L’unica eccezione riguarda la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, che ha lo stesso impatto sui cambiamenti climatici ovunque si verifichi.
Marco Pisano