Più della metà dei migranti in Italia sono donne: parliamo di circa 2,6 milioni, ovvero il 51,8% di tutta la popolazione straniera residente. Questo dato risulta possibile perché negli anni si è sviluppata una migrazione più marcatamente femminile dalle nazioni dell’Europa orientale (Romania, Ucraina, Bielorussia) e da quelle del Sud Est asiatico (Filippine, Thailandia). Pur rappresentando l’8,5% delle donne che soggiornano in Italia, vengono trattate come una minoranza e subiscono il peso di discriminazioni e stereotipi sia di genere che sociali.
Sulle spalle dei/delle migranti c’è il desiderio di ricominciare a vivere dopo essere finalmente fuggiti da un sistema politico e sociale soffocante e pericoloso e/o da situazioni economiche disagianti, che non permettono una dignitosa qualità di vita. Oltrepassato il confine i loro sogni devono ridimensionarsi perché ad attenderle c’è un clima a loro non sempre favorevole. La situazione occupazionale delle donne migranti è, infatti, complessa: costituiscono il 16% di tutte le disoccupate residenti in Italia e, se complessivamente il tasso di disoccupazione è più alto rispetto a quello degli uomini (15,2% contro l’11,4%), a fare sensibilmente la differenza è soprattutto il tasso di inattività tra le migranti (che riguarda coloro che non hanno un impiego e che non sono alla ricerca di lavoro).
Ricercare le motivazioni di questo dato ci catapulta in un universo di orrori. Il più delle volte le donne che arrivano in Italia per ricongiungimento familiare o per lavoro sono vittime di atroci violenze nel paese di origine (MGF, stupri e matrimoni forzati, violenza domestica, stupri di guerra), nel percorso migratorio (stupri e sfruttamento sessuale) e nel nostro paese (violenza domestica, acidificazione, sfruttamento della prostituzione, sfruttamento lavorativo e riduzione in schiavitù). Sono soggetti fragili che hanno bisogno di essere accompagnate in un lungo percorso che presuppone la ricostruzione di un’identità psicofisica. Ma il cammino continua ad essere intervallato da ostacoli che investono diversi ambiti: sanitario, burocratico, sociale, lavorativo, genitoriale.
La lingua è una prima invalicabile barriera. Il 17% della popolazione mondiale è analfabeta e punte significative si raggiungono in luoghi in cui c’è una forte incidenza di flussi migratori (nel 2000, l’ente ISTAT rilevava che 861 milioni di uomini e donne al di sopra dei quindici anni era illetterato). Il gap non si registra solo sul piano geografico, ma anche su quello di genere: i due terzi del dato precedentemente riportato sono infatti di sesso femminile e raggiunge la sua massima ampiezza nell’area del Maghreb.
Nelle migranti analfabete il bisogno di apprendimento della lingua di comunicazione è altissimo, tuttavia esso non è sempre percepito come necessità immediata perché purtroppo (per timore, traumi psicofisici, cultura di appartenenza) spesso il loro vissuto nella società italiana si consuma in un logorante isolamento prolungato e i loro bisogni comunicativi sono sopperiti dai familiari. La necessità di adoperare competenze linguistiche può, quindi, presentarsi anche molto tardi. Il mancato contatto con la nuova società in cui si è immerse genera un contrastante senso di smarrimento e di oppressione, soprattutto se soggette all’allontanamento di qualsiasi occasione di indipendenza e inclusione. Questi meccanismi causano una forte perdita dell’autostima: le donne migranti possono mostrare una resistenza all’insegnamento dell’italiano perché indaffarate e intrappolate nel loro ruolo di figlie, mogli e madri, perché sfruttate da padroni a cui rendere conto o semplicemente perché rientrano del profilo di “apprendenti adulte”.
L’adulto differisce infatti dal bambino per il ruolo che occupa in società: se i più piccoli sono abituati a trovarsi in una posizione bassa della piramide sociale (devono ubbidire ai genitori, agli insegnanti, ai nonni..), gli adulti migranti si trovano a dover ristrutturare una visione del mondo già consolidata in modo più o meno rigido e questo processo può implicare uno spiacevole astio nei confronti dell’insegnante. Ad entrare in gioco è l’emotività legata ai ricordi di una storia di insuccessi e/o di esclusione scolastica o a una sensazione di inferiorità che potrebbe compromettere il lavoro di apprendimento. Tuttavia, esiste anche la reazione opposta, nel caso in cui l’adulto in questione voglia riscattarsi e, quindi, punti a un approccio positivo nei confronti di un ambiente, che potrebbe permettergli una legittima integrazione ed è su queste motivazioni che il docente dovrebbe concentrarsi. Per quanto riguarda le abilità cognitive, gli adulti mostrano un’inferiore capacità di memorizzazione, ma una maggiore consapevolezza cognitiva, cui consegue un leggero vantaggio sui bambini nelle fasi iniziali. Tuttavia, in ambito morfosintattico proprio le abilità “adulte” appena descritte sembrano essere assenti o scarse in chi possiede una debole scolarità.
Nell’ambito lavorativo, se tra gli uomini migranti si rischia continuamente di generare la pericolosa dicotomia del “se non lavori, non esisti”, le donne si vedono continuamente tramutare in ombre, fantasmi di se stesse, incatenate in quattro mura o al freddo delle strade. Come scrive Triulzi (2010), “le memorie migrano insieme ai corpi che le custodiscono e in alcune realtà“, come in quella Rom, Sinti e Camminanti dove l’identità sociale prevale su quella individuale, ogni singola scelta ha un valore per le famiglie e quindi per l’intera comunità. Queste devono infatti essere guardate come delle complesse reti costituite da individui e istituzioni sociali, dove la violenza viene spesso giustificata e normalizzata, con il risultato che le donne hanno difficoltà a riconoscerla come violazione dei proprio diritti. La minaccia di esclusione dall’ambiente riconosciuto e accettato, sebbene alienante, preclude la perdita totale del proprio ruolo nella comunità. Di vitale importanza è quindi una giusta apertura a incroci, di attraversamenti culturali e del mutuo riconoscimento dell’altro da parte di associazioni, mediatori e luoghi di accoglienza. Tali contesti e figure sono quindi indispensabili per facilitare lo scambio e per permettere una giusta opportunità di coesione sociale, atta alla creazione di un giusto “terreno di ascolto”.
Alessia Sicuro