Il 16 ottobre 2018, il Senato della Repubblica ha istituito la seconda Commissione di inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente (PD), con il compito di svolgere indagini e monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul sul bisogno urgente di tutela delle donne rifugiate e migranti.
Il Piano Strategico Nazionale contro la Violenza maschile sulle donne 2017-2020 dichiara di considerare «le donne vittime di ogni forma di violenza indipendentemente dalla loro condizione sociale od economica, coinvolgendo anche quante vivono situazioni multiple di disagio e violenza -come le donne rom, migranti, rifugiate e richiedenti asilo e disabili», dedicando loro un’attenzione specifica vista la peculiarità connessa alla condizione migratoria che le espone a discriminazioni multiple e maggiori rischi.
Nel Box 2, interamente dedicato al tema, il piano riconosce la presenza di fattori particolarmente problematici che impediscono alle vittime di violenza di emanciparsi, come ad esempio le barriere linguistiche, la mancanza di informazioni adeguate, la differente concezione dei diritti umani e percezione della violenza rispetto ai contesti culturali dai quali si proviene. E, ancora, le vulnerabilità scaturite dalle condizioni precarie di lavoro e regolarizzazione sul territorio italiano, l’estraniamento, la mancanza di una rete di solidarietà a cui affidarsi, la presenza di figli e il timore che vengano allontanati.
All’interno del progetto SWIM – Safe Women in Migration, che ha ricevuto finanziamenti dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione Europea (2014-2020), è stata svolta la prima indagine rivolta a operatori e gestori di centri di accoglienza, pubblicata alcuni mesi fa. La maggior parte delle donne a contatto con gli operatori intervistati ha subito forme multiple di violenza da parte di uomini conosciuti e trafficanti nel Paese di origine o durante il viaggio.
In Italia si parla del 38%.
Requisito della Convenzione di Istanbul è anche quello di garantire che le leggi sullo status di residente e le procedure di asilo non ignorino la possibilità che sussistano casi di abuso o violenza. Ciò non si limita soltanto all’ottenimento dei titoli di soggiorno, bensì all’ampio raggio entro cui si configura la possibilità di raccontare le proprie storie e i motivi di persecuzione e che questi vengano interpretati sulla base degli aspetti legati al genere. Le misure previste dall’art. 59 della Convenzione vengono implementate attraverso l’art. 18-bis del D. Lgs. n. 286/98 – Testo Unico sull’Immigrazione. Stando alle disposizioni previste, il permesso di soggiorno può essere rilasciato con una validità di un anno per motivi umanitari se le forze dell’ordine o i servizi sociali accertano la situazione di violenza che metta in pericolo l’incolumità della persona.
Tale permesso, tuttavia, può essere rilasciato solo per casi di grave e ripetuta violenza domestica e a condizione che la vittima corra un reale pericolo per la propria sicurezza. Per donne rifugiate e migranti, vittime di violenza, non è così semplice poterlo dimostrare.
In occasione della Giornata Internazionale dei/lle rifugiati/e, il 20 giugno D.i.Re – Donne in Rete contro la Violenza ha diffuso un nuovo video per affrontare un altro capitolo della campagna “Violenza sulle donne. In che Stato siamo?“. Secondo il GREVIO – Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, le donne migranti sono a forte rischio di esclusione sociale e sfruttamento in Italia. Nel rapporto si legge: «Non esistono dati ufficiali sui motivi per cui viene richiesto e concesso l’asilo in Italia. Pertanto, il GREVIO non è stato in grado di stabilire in che misura la violenza basata sul genere sulle donne sia riconosciuta come una forma di persecuzione, come definita dalla Convenzione ONU del 1951 sullo Status di Rifugiati, e come forma di grave pregiudizio che dà luogo ad una protezione complementare/sussidiaria, come previsto dall’Articolo 60, comma 1 della Convenzione di Istanbul». Prive di un valido titolo di soggiorno, riscontrano maggiori difficoltà nel trovare lavoro o ad accedere ai servizi, tra cui le case rifugio, qualora fossero vittime di violenza. Ciò le porta a essere maggiormente esposte al rischio di dipendenza dalla relazione affettiva. Pertanto, richiesta del GREVIO è anche quella di facilitare il riconoscimento di un diritto di soggiorno autonomo dal partner.
Non a caso, viene stigmatizzato l’impatto generato dal Decreto Sicurezza del 2018, che ha eclissato la protezione umanitaria e sostituito al sistema SPRAR il SIPROIMI, causando una riduzione dei percorsi di supporto e inserimento sociale. «Nell’esperienza di D.i.Re, che da circa 3 anni realizza in partnership con l’UNHCR il progetto Leaving violence. Living safe», spiega la presidente di D.i.Re Antonella Veltri, «questo si traduce anche in una grande difficoltà, per le donne migranti richiedenti asilo e rifugiate di accedere al supporto dei centri antiviolenza, pur considerando che oltre il 25 per cento delle donne accolte dai centri antiviolenza D.i.Re ogni anno sono straniere».
Leaving violence. Living safe.
Il progetto Leaving Violence. Living Safe nasce nel 2018 da una partnership consolidata negli anni tra D.i.Re e l’UNHCR, per imparare ad accogliere donne migranti e rifugiate vittime di violenza. Fa seguito alla ricerca “Progetto Samira. Per un’accoglienza competente e tempestiva di donne e ragazze straniere in situazione di violenza e di tratta in arrivo in Italia“, realizzata da D.i.Re nel 2016, e ai successivi progetti “Ensuring meaningful access to service to asylum seeking and refugee women and girls” del 2017 e 2018.
Tra le azioni previste figurano:
- formazione e inserimento di mediatrici culturali;
- costruzione di reti territoriali;
- definizione di linee guida sulla metodologia di accoglienza e fuoriuscita dalla violenza;
- outreach verso le donne richiedenti asilo e rifugiate sia nei contesti organizzati che nei contesti informali;
- advocacy verso le istituzioni internazionali, nazionali e locali.
Buone pratiche
All’interno del rapporto del GREVIO viene anche menzionato il caso di Bari, dove i funzionari addetti alla determinazione dello status del rifugiato (DSR) della commissione territoriale, previa formazione sulle tematiche di genere legate alle richiedenti asilo, hanno maturato una sensibilità specifica che permette loro di approcciarsi alle vittime di violenza e di scoprire in cosa consiste quella violenza “nascosta” che le richiedenti asilo non riescono a confessare durante il colloquio. Sia i dipendenti che gli interpreti sono donne. Le persone vulnerabili sostengono colloqui in presenza di un’interprete qualificata.
A Torino, l’associazione “Donne Africa Subsahariana e II Generazione” mira al coinvolgimento delle donne per renderle un punto di riferimento per coloro che arrivano per la prima volta in Italia. Un atto di partecipazione che mette in connessione culture ed esperienze pregresse. Tra le attività di cui si occupa, il progetto Haween rientra tra i 16 progetti vincitori del programma PartecipAzione di Intersos e UNHCR, promuovendo la protezione e la partecipazione attiva dei rifugiati alla vita economica, sociale e culturale in Italia. A partire dall’esperienza maturata attraverso l’utilizzo dei social network, è stato creato un blog per permettere lo scambio di considerazioni e di idee e la raccolta delle storie provenienti dai centri di accoglienza.
Sara C. Santoriello