Lakomb, l'inscindibile sodalizio tra tradizione e innovazione
Fonte: Emic Entertainment

Ogni opera, ogni suono arriva da un particolare percorso creativo: in uscita il 26 maggio per la label bolognese Emic Entertainment, l’EP “Long Distance Manifesto”, è il compimento di un’esplorazione senza confini spazio-temporali, la quale ha portato i Lakomb a palesare la propria inventiva musicale secondo un originale punto di vista.

Frutto della commistione delle variegate esperienze a livello artistico di entrambi i componenti, la tracklist dell’EP d’esordio del duo di jazztronica formato da Max Tozzi (basso, synth) e Giacomo Ganzerli (batteria) si compone di quattro semplici e valenti tracce che incorporano elementi della tradizione in una dinamica ed un sound denso e moderno, raffinato e per nulla pronosticabile.

In “Long Distance Manifesto”, il jazz si sveste dell’abito da cerimonia di vecchia fattura, baloccandosi con le sonorità della musica elettronica attuale. Lasciarsi contaminare, tuffarsi nelle possibilità compositive dei nuovi strumenti e improvvisare, questa è la quintessenza del nu jazz, miscela contemporanea, virtuosa e soft caratterizzata da loop sincopati e concerti di brevi interplay che sfruttano la versatilità del futuro musicale: la cadenza non cambia mai nel profondo, si nasconde sotto tracce digitali e campioni sempre più ardimentosi che portano l’ascoltatore in un momento di sospensione assoluta.

Novelli di debutto discografico, abbiamo realizzato un’intervista ai Lakomb:

Iniziamo con una domanda basilare per presentarvi a chi non ha ancora avuto modo di conoscervi. Da cosa deriva il vostro progetto? Ci spiegate la scelta del nome Lakomb?

“I Lakomb sono una specie di spin-off di un altro gruppo – per certi versi più classicheggiante – che gravita anch’esso nell’ambito neo soul e nu jazz, gli Stereonoon. Durante l’ultima ondata pandemica, ho cominciato a scrivere alcuni brani strumentali senza un preciso scopo, con il solo intento di resistere all’annientamento creativo che attanagliava la mia mente in quei giorni. Sì, c’erano i balconi e le collaborazioni su JamKazam, ma sembrava tutto quanto un diversivo, un modo per fare pausa dalle serie TV in streaming e dallo stillicidio dei notiziari. All’inizio ho registrato tutto quanto in solitaria (anche le parti di batteria fatte con il controller MIDI); mi sono, successivamente, reso conto che mancava quel tocco in più, vale a dire un altro essere umano che potesse collaborare, anche a distanza, a quelle musiche che cominciavano a convincermi molto. Ho coinvolto Giacomo Ganzerli, residente a Modena, attuale batterista del gruppo sopra citato, un collettivo nato l’anno precedente dall’incontro con Anna Polinari. Giacomo ha registrato nel suo studio le batterie dei quattro brani, poi mixate ai miei. Il nome da dare al gruppo è arrivato, come una folgorazione, durante l’ennesima visione di una pellicola che adoro, “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. In quel film, ha un ruolo centrale, anche se non da protagonista, lo scienziato Claude Lacombe. Mi allettava l’idea di mescolare diverse suggestioni in un nome che ho, semplicemente, storpiato togliendo una lettera e sostituendone un’altra. Il personaggio interpretato da François Truffaut, mio mito assoluto, riesce a comunicare persino con gli alieni grazie al potere della musica. Non è forse uno dei messaggi di speranza più potenti per chi, come noi, con le note ci campa e si emoziona ogni giorno?”

Curiosità, sperimentazione, collaborazione e coraggio, sono forse questi i quattro ingredienti principali delle vostre composizioni. Oltre ai già citati, quali altri aggiungereste alla lista?

“Quelli citati, sono quattro ingredienti che, a nostro parere, dovrebbero essere presenti in ogni disco, in ogni canzone e accompagnare ogni momento in cui un pulsante “REC” viene premuto (anche sullo schermo di un computer, come, spessissimo, capita a noi Lakomb). A questi, aggiungerei pure urgenza e onestà. Vorrei che si cogliesse sempre l’impellenza, non è mai facile farla passare indenne attraverso il marasma del processo creativo, che va dalla scrittura all’uscita di un pezzo. In mezzo ci sono mille piccoli aggiustamenti che rischiano sempre di mistificare il primo intento per il quale un brano nasce. Sarà certamente un’impresa non da poco evitare gli stravolgimenti: bisogna essere vigili durante tutte le fasi in cui una creatura musicale prende forma. Stesso discorso può essere fatto per l’onestà, con cui quell’urgenza e il messaggio che essa veicola si concretizza. Bisogna essere in grado – non vi nascondo che non è semplice – di evitare scorciatoie, di indossare troppe maschere che non ci appartengono. Questo non significa che urgenza e onestà debbano essere considerati la meta da raggiungere. Anzi – proprio qui sta il punto – se si è scelto di essere leggeri si deve cercare di farlo fino in fondo, senza scendere a compromessi. In tal senso, “Long Distance Manifesto” mi sembra un lavoro che può essere considerato urgente e onesto.”

Arriviamo al vostro EP di debutto “Long Distance Manifesto”, disco che presenta una varietà di soluzioni non irrilevanti: a combinazioni ritmiche spumeggianti, contrappone atmosfere distese ed ipnotiche. Ad un primo e non attento ascolto sembrerebbe non esserci alcun filo conduttore tra un pezzo e l’altro; in realtà, nonostante le differenze stilistiche in essi contenute, sono parte integrante di un unico viaggio sonoro aperto ad ogni tipo di interpretazione. Come definireste il vostro lavoro? Quali influenze musicali sono in esso contenute?

“Chiedere ad un musicista di definire il proprio lavoro è esattamente come trovarsi di fronte a quel dedalo di sottogeneri musicali con cui Spotify cataloga i brani e li veicola tramite algoritmi. Non bisognerebbe mai scordarsi che ci sono di mezzo le emozioni, i ricordi e le suggestioni. I quattro brani contenuti nel primo EP firmato Lakomb, e gli altri che sono già stati composti, che speriamo possano uscire molto presto, si muovono in territori di confine in cui nu jazz, un certo tipo di elettronica di consumo, la fusion, se così possiamo definirla, plasticosa che si muova a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta si incontrano con certe sperimentazioni orchestrali più “colte” di matrice jazz. A pensarci bene, contraddizione sarebbe potuto essere uno degli ingredienti che avrei dovuto indicare nella risposta precedente. Nonostante sia una delle peculiarità del nostro stile musicale, la sua anima contraddittoria è, forse, una delle caratteristiche meno celebrate. Il jazz, in tutte le sue forme, ha da sempre una componente ritmica viscerale, ma ha nella ricerca armonica il suo marchio di fabbrica. Rifugge la polvere dei conservatori cercando il sudore, finendo nei teatri.”

Sebbene il vostro genere di riferimento oltremanica sia stato già sdoganato da svariati anni, in Italia – specialmente nelle sue accezioni più raffinate – viene percepito come un importante passo avanti per l’innovazione. Secondo l’opinione dei Lakomb, a cosa si deve l’exploit del nu jazz?

“Hai ragione, spesso e volentieri, quanto reputiamo nuovissimo ha profondi legami con ciò che altrove è stato fatto una ventina d’anni fa. Anche i Lakomb non sono immuni da questo fraintendimento; siamo consapevoli che ciò che stiamo componendo e suonando è spesso un “pastiche” che non ha la pretesa di essere la novità assoluta a tutti i costi (si torna all’onestà di cui sopra: fare anche un qualcosa di demodé se è quello che si vuole fare in quel dato momento). Le ragioni alla base dell’esplosione di questo genere credo siano molteplici. In primo luogo, come per ogni cosa, la praticità ha giocato un ruolo fondamentale: tantissimi musicisti jazz si sono trovati a dover utilizzare il proprio linguaggio, semplificandolo, in contesti più leggeri, quindi più diffusamente apprezzati. Il jazz – anche questa è una contraddizione che da sempre lo accompagna – passa spesso per una musica da sottofondo. Chi mai potrebbe rilassarsi con Ornette Coleman o con le ultime produzioni di John Coltrane (senza andare a scomodare John Zorn o Stephen Lehman, tanto per restare in tema sassofonisti)? Il nu jazz non è altro che un’evoluzione “cool” del tanto vituperato smooth jazz che dagli anni Ottanta ammorba le sale d’attesa. Nella sua versione meno artistica, rappresenta la colonna sonora perfetta per i nostri aperitivi. Se questo, a primo acchito, tale cambiamento di locazione può apparire come un aspetto negativo, ha, a ben vedere, educato molte orecchie ad armonie meno classiche, consentendo ai musicisti più impegnati (onesti?) di sperimentare e produrre musiche con un valore artistico elevato. L’essere aperto a qualsivoglia tipologia di contaminazione apre il nu jazz, senza puzze sotto il naso e snobismi, a sovrapposizioni non del tutto canoniche (basti pensare all’elettronica, all’ hip hop e, perché no, alla profondissima influenza che hanno avuto i Radiohead su certi artisti insospettabili). Ragionandoci su, è tutto questo che ha contribuito alla nascita di veri e propri capolavori, specchio del nostro tempo fatto di playlist da ascoltare di fretta e furia, dischi corti e performance live da remoto.”

Vincenzo Nicoletti

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