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Greta Thunberg e il greenwashing, istruzioni per l’uso

Greta Thunberg e il greenwashing, istruzioni per l'uso
Fonte: bilanciarsi.it

«C’è speranza. L’ho visto, ma non proviene dai governi o dalle società. Viene dalla gente». Queste le parole di fiducia con cui Greta Thunberg, giovane attivista svedese che non necessita certo di presentazioni dopo essere stata nominata dal Time persona dell’anno appena trascorso, conclude l’intervento tenuto durante la COP25, Conferenza sul cambiamento climatico organizzata dalle Nazioni Unite. Nel discorso pronunciato a Madrid lo scorso dicembre, Greta decide di ricorrere a un linguaggio differente da quello consueto. Per evitare che l’attenzione di chi ascolta venga catturata esclusivamente da quelle parti del discorso in cui impiega espressioni catastrofiche – «la nostra casa è in fiamme» – o accusatorie – come quando, rivolgendosi ai leader mondiali, ha chiesto come osassero continuare a raccontare favole sull’eterna crescita economica mentre milioni di persone soffrono e muoiono e interi ecosistemi collassano – Greta Thunberg sceglie parole differenti. Parole che aprono la strada a una, sia pur timida, speranza. I toni del suo messaggio, però, diventano tutt’altro che morbidi quando si tratta di rivolgersi a politici e amministratori delegati, a cui viene rimproverata non tanto l’inazione quanto piuttosto quella tendenza sempre più diffusa a far credere che le proprie azioni abbiano un impatto positivo su ambiente e società, mentre in realtà sono mosse esclusivamente da interessi economici. Siamo nel campo del greenwashing.

Con l’espressione greenwashing si suole indicare una strategia comunicativa volutamente ingannevole cui fanno ricorso tanto le imprese quanto le istituzioni politiche per costruire un’immagine di sé apparentemente positiva dal punto di vista dell’impatto ambientale. Così facendo, imprese e istituzioni politiche riescono a dissociare dalla propria immagine gli effetti negativi che le loro attività e/o i loro prodotti recano all’ambiente. Un simile atteggiamento non è proprio solo di dirigenti politici e imprenditori nostri contemporanei. Prima ancora che si coniasse questo termine, infatti, erano già riscontrabili i primi tentativi posti in essere al fine di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da azioni tutt’altro che eco-friendly.

L’introduzione del termine greenwashing è fatta risalire all’ambientalista statunitense Jay Westerveld che lo impiegò, in un saggio composto nel lontano 1986, per riferirsi alla pratica esercitata da alcune compagnie del settore alberghiero che, col pretesto di sensibilizzare i clienti sull’impatto ambientale prodotto dal lavaggio della biancheria, chiedevano di ridurre il consumo di asciugamani allo scopo di ottenere un risparmio economico. “Salva il nostro pianeta”, recitava il piccolo volantino trovato da Westerveld in una camera d’albergo sulla costa del Pacifico meridionale. “Ogni giorno milioni di litri d’acqua sono impiegati per lavare gli asciugamani che sono stati usati solo una volta. Fai la scelta giusta: un asciugamano sul ripiano significa ‘Lo userò di nuovo’. Un asciugamano sul pavimento significa ‘Sostituiscilo’. Grazie per averci aiutato a conservare le risorse vitali della Terra”.

Il movimento “salva l’asciugamano” era in realtà stato preceduto negli anni sessanta, quando il tema ecologico e i movimenti ambientalisti avevano fatto il loro ingresso sulla scena pubblica, dal tentativo di alcune imprese di rinverdire la propria immagine al fine di influenzare la nascente vocazione ecologista dei consumatori. Le strategie di greenwashing diverranno dunque direttamente proporzionali all’attenzione di questi ultimi nei confronti della questione ambientale, raggiungendo, a partire dagli anni novanta, il massimo sviluppo. E così da quel momento, oltre al nero, anche il verde non passa mai di moda.

Quando si parla di greenwashing non si può non far riferimento alla compagnia petrolifera Chevron, divenuta tristemente nota per essere stata condannata al più grande risarcimento ambientale della storia (18 miliardi di dollari) dovuto alla contaminazione, avvenuta tra il 1964 e il 1990, di circa 480 mila ettari di foresta amazzonica in Ecuador. Parlare di contaminazione di una foresta, è bene precisarlo, non significa solo far riferimento al deterioramento di un ambiente naturale, ma anche provocare impatti catastrofici sulla vita delle popolazioni indigene che abitano quei luoghi e che ad essi sono visceralmente connessi.

Il fenomeno del greenwashing non macchia di verde solo il comportamento di imprese e società, ma anche quello delle istituzioni governative chiamate a rispondere, sempre più frequentemente, alla richiesta di soluzioni sostenibili proveniente dai cittadini. Almeno apparentemente tale richiesta sembra aver trovato un riscontro positivo. D’altronde, si sa, tutto ciò che ha a che fare con la sostenibilità va di moda, e ciò che va di moda vende e paga tanto in termini economici quanto in termini reputazionali. Ma, a parte accrescere il consenso intorno alla propria persona, non sembra che le politiche attuate dai leader mondiali stiano offrendo una risposta concreta al tema più caldo del momento, espressione che qui si usa non certo casualmente: quello del cambiamento climatico. A dimostrarlo l’esito fallimentare e sconfortante della Conferenza ONU sui cambiamenti climatici conclusasi, lo scorso dicembre, senza alcun accordo ma anzi con il rinvio della discussione di alcuni punti cruciali a Glasgow 2020. In particolare, ancora nessuna soluzione è stata trovata relativamente alla definizione delle regole del mercato globale del carbonio. Al contrario, come fa notare Greta Thunberg, da quando l’Accordo di Parigi è stato sottoscritto le banche globali hanno investito ben 1,9 trilioni di dollari in combustibili fossili. Per non parlare del fatto che dietro l’impegno assunto da alcuni dei partecipanti alla COP25 di ridurre le proprie emissioni di gas serra si nasconde un nulla di fatto. Come Greta non manca di far notare, infatti, assumere come impegno di lungo periodo quello di diventare climaticamente neutrale non ha alcun senso se le emissioni continuano ad essere elevate anche solo per un numero ridotto di anni.

«Anche se le intenzioni possono essere buone» sostiene Greta Thunberg «questa non è una vera leadership». Questa è piuttosto la simulazione di una politica attenta, e neanche poi così tanto, alla questione ambientale. Certo è che se le cose non cominciano a cambiare già da domani – meglio ancora da oggi – in natura non resteranno che le allodole, quelle che si lasciano abbagliare da chi, con le proprie politiche, altro non fa che contribuire a rafforzare la pratica del greenwashing.

Virgilia De Cicco

Virgilia De Cicco
Ecofemminista. Autocritica, tanto. Autoironica, di più. Mi piace leggere, ma non ho un genere preferito. Spazio dall'etichetta dello Svelto a Murakami, passando per S.J. Gould. Mi sto appassionando all'ecologia politica e, a quanto pare, alla scrittura. Non ho un buon senso dell'orientamento, ma mi piace pensare che "se impari la strada a memoria di certo non trovi granché. Se invece smarrisci la rotta il mondo è lì tutto per te".

1 commento

  1. The very elevation of Greta,whose parents had premarketed her as a climate warrior when she was but a child, examples the essence of Greenwashing at its worst. To a critical thinker, she is no different than is any 17 year old wearing Klan regalia, no more understanding of or intellectually-vested in her focal cause than were Germany’s Hitlerjugen.

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