fake news disinformazione
Foto: Edward Kimmel/Wikimedia Commons

Il 24 settembre scorso è stata presentata una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta contro la disinformazioneL’iniziativa è stata promossa da alcuni esponenti del partito Italia Viva (fra i quali Maria Elena Boschi, Roberto Giachetti, Ettore Rosato). Si parla dell’istituzione di una Commissione che indaghi “sulla diffusione seriale e massiva di contenuti illeciti e di informazioni false” su internet e le piattaforme digitali. Si prende atto, insomma, di come le cosiddette fake news siano diventate un problema politico.

Da un lato l’utilizzo quotidiano e costante dei social ha consentito agli utenti, potenziali elettori, di esprimere la loro opinione ed esercitare un controllo “diffuso” del potere politico, non limitato agli appuntamenti elettorali. Dall’altro, un flusso informativo online così veloce e privo di controlli da parte dei gestori delle piattaforme social ha finito per rendere dilaganti i contenuti disinformativi via web.

Una Commissione contro la disinformazione

La Commissione, formata da quaranta parlamentari – venti senatori e venti deputati – verrebbe istituita per tutta la durata della legislatura con compiti di varia natura. Sarebbe chiamata fra l’altro a indagare sulle “reali dimensioni dei casi di diffusione seriale e massiva di informazioni false e le condizioni nelle quali tali fenomeni si realizzano”. Avrebbe funzioni di accertamento di “violazioni, manipolazioni o alterazioni di dati personali o di circostanze fattuali relativi a cittadini italiani” che abbiano potuto condizionare l’esito delle elezioni e dei referendum indetti negli ultimi cinque anni. Inoltre assumerebbe funzioni di analisi, poiché è chiamata a individuare comportamenti ricorrenti che incentivano la diffusione della disinformazione, e che siano utili su un piano statistico per “orientare l’attività di prevenzione”.

Questi e altri compiti sarebbero funzionali a introdurre una normativa specifica, amministrativa e penale, volta a prevenire e a contrastare la diffusione delle fake news. Lo stesso documento fa infatti riferimento a come la disinformazione online minaccia la democrazia.

La libertà d’espressione, costituzionalmente garantita dall’art. 21, è fondamentale in un sistema che voglia dirsi democratico. Questo principio però deve essere bilanciato con altri diritti di pari valore, quali quello “alla riservatezza, all’onorabilità e alla reputazione”, che sono minacciati dalla diffusione della disinformazioneUn ulteriore profilo accennato nella proposta di legge si collega al diritto di ciascun cittadino a ricevere informazioni veritiere, solo in questo modo infatti è possibile garantire la formazione di un’opinione pubblica consapevole ed effettivamente preparata al voto in occasione degli appuntamenti elettorali. 

La lotta alle fake news

Le iniziative istituzionali d’analisi della disinformazione online non sono totalmente nuove nel panorama europeo e italiano. Alcuni studi sull’argomento hanno fatto emergere degli elementi interessanti, soprattutto in tema di responsabilità della politica sulla circolazione della disinformazione.

Lo scorso anno la Commissione Europea ha istituito un High level Group, ossia un gruppo di esperti col compito di analizzare il fenomeno delle fake news e, più in generale, della disinformazione online nel contesto europeo. Il risultato è stato un report, pubblicato nel marzo 2018, che punta ad analizzare il problema e a fornire agli Stati degli strumenti d’analisi in grado di arginarlo.

Il lavoro è interessante sotto vari aspetti. Anzitutto perché più che sulle fake news si concentra sul concetto di disinformazione, promuovendo una prospettiva del problema più ampia. Il Gruppo di studio ha infatti notato che dire fake news è fuorviante (“misleading”). Il termine è ormai considerato tale perché abusato dai personaggi pubblici attivi sui social – in particolare i politici – che spesso denunciano come non vero qualsiasi fatto o dichiarazione loro attribuita non in quanto effettivamente falsi, ma perché sconvenienti in termini di consenso elettorale. Il termine sarebbe poi inadeguato perché non coglie a sufficienza la complessità del problema: la disinformazione si può anche basare su fatti e dichiarazioni vere e successivamente manipolate, quindi su news non totalmente fake. 

Ciò che però è interessante è che il report considera i politici quali potenziali propagatori (“purveyors”) di disinformazione. Infatti la loro ampia visibilità garantita dai social influenza molto più che nel passato le opinioni dei propri elettori – follower. Si tratta di un sottile strumento per “pilotare” il consenso, anche indugiando su dati, fatti o dichiarazioni in tutto o in parte inventati o, comunque, non verificati.

La tendenza è forte in soggetti, quali sono i politici, che hanno bisogno di far presa sulla base elettorale per acquisire e preservare la loro posizione. Un aspetto da tenere in considerazione è inoltre la pressione che i politici possono esercitare sugli organi di stampa. È evidente che giornali compiacenti possono dare un contributo determinante nella propagazione della disinformazione, nella misura in cui si fanno dolosamente veicolo di fatti e dichiarazioni non attentamente verificate. E qui viene in gioco la salvaguardia dell’indipendenza dei giornali.

Il ruolo delle hard news nella disinformazione

Oltre alla responsabilità dei politici, bisogna considerare un ulteriore fattore che emerge da un altro studio, recentemente pubblicato dall’Autorità Garante per le telecomunicazioni (AGCOM). Il documento rileva che la diffusione della disinformazione è più evidente nel campo delle hard news, le notizie che suscitano maggior interesse nell’opinione pubblica (cronaca, politica, esteri), con una percentuale del 56%. In cima alle tematiche bersagliate figurano gli argomenti Politica/Governo, con un’impennata di contenuti web non veritieri durante il periodo elettorale.

Sempre l’AGCOM evidenzia che le macrotematiche i cui contenuti disinformativi sono più numerosi hanno come denominatore comune il richiamo ad argomenti socialmente divisivi (il report usa il termine “polarizzanti”), e quindi capaci di “creare o accentuare la separazione degli individui in gruppi distinti”. Proprio in considerazione della natura di questi argomenti, prosegue lo studio, essi sono “dotati di un certo livello di contagiosità” e quindi sono “atti a trasferire stati emotivi e percezioni tra gli utenti”. 

Il tema delle fake news e, in generale, della disinformazione è solo in parte conosciuto. Da qualche anno su di esso si stanno interrogando attori di ambiti diversi: dai politici ai giornalisti, dagli psicologi ai filosofi. Per essere compiutamente analizzato, occorre scandagliare aspetti quali le modalità di funzionamento del cervello umano, il tema delle relazioni sociali e del modo di comportarsi degli individui negli spazi pubblici (sia fisici che virtuali), le problematiche del mondo dell’informazione e dell’economia. 

Fake news e propaganda politica

I politici, in quanto personaggi in grado di esercitare maggior influenza sulla loro base proprio grazie al web, dovrebbero essere i primi controllori della disinformazione. Si vuole dire che la disinformazione può essere un valido strumento di propaganda, consapevolmente o inconsapevolmente usato dagli attori pubblici per raggiungere il massimo appeal possibile nei confronti dei propri elettori-followers.

È ad esempio dello scorso agosto il caso “Charlottea”, un gommone di salvataggio della Alan Kurdi, la nave della SeaEye (l’ONG impegnata da tempo nel soccorso di migranti in mare). L’imbarcazione è stata spacciata da siti web di matrice sovranista per una nuova nave che trasportava migranti, diretta verso l’Italia. In un suo tweet l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini ha rilanciato la notizia conteggiando “tra le navi Ong che vorrebbero entrare in Italia” anche questa fantomatica “Charlottea”. I politici possono dunque farsi cassa di risonanza della disinformazione, contribuendo in modo decisivo alla sua diffusione.

Le soluzioni prospettate dalla proposta di legge, per quanto prendano in considerazione delle responsabilità esistenti – quelle dei gestori dei social sui contenuti che pubblicano, ad esempio – tralasciano il forte potere che gli attori pubblici esercitano via web sulla loro base. Un tema che dovrebbe essere considerato, se è vero che i leader politici dovrebbero dare il buon esempio. Specie e paradossalmente oggi, in un momento in cui è dilagante la sfiducia nei loro confronti.

Detto in altri termini (forse un po’ provocatori), i politici vorrebbero ergersi a controllori delle fake news, ma chi controlla i controllori?

Raffaella Tallarico

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