Senza opere, con meno costi, ma sempre più visitate: le mostre multimediali immersive si stanno affermando come un fenomeno economico di grande rilevanza per il mercato dell’arte. Spuntano come funghi e raramente falliscono, proviamo a conoscerle meglio.
Da tre anni i consumi culturali in Italia sono rialzo: nel 2013 la spesa totale delle famiglie in cultura e ricreazione era di 63.968.400.000 € (fonte: Istat), nel 2014 si è saliti a 64 miliardi, nel 2015 a 67, e nell’anno passato si è arrivati a circa 68 miliardi e mezzo. Una risalita considerevole dopo anni di calo, la prima consistente crescita dopo il picco della crisi economica.
Nell’ambito delle mostre temporanee il progresso sembra essere trainato dall’opera di imprenditori privati, che stanno sfruttando al meglio le opportunità provenienti da nuovi concept di esposizione: mostre che invitano lo spettatore a scattarsi selfie ad esempio, contro lo storico imperativo del “no photo”. “Love” e “Enjoy” al Chiostro del Bramante di Roma sono state mostre di grande successo proprio grazie a questo genere di approccio social.
Le mostre multimediali sono un’altra importante novità degli ultimi tre anni, e forse vanno annoverate fra le più redditizie per gli addetti ai lavori: nessuna particolare diavoleria tecnologica, semplicemente i quadri anziché essere trasportati fisicamente nello spazio espositivo si manifestano qui solo tramite proiezioni iper-definite e iper-cangianti, che permettono di riprodurre l’opera su pareti di dimensioni incredibili, che letteralmente avvolgono lo spettatore. Vengono definite anche “mostre immersive”, poiché qui il visitatore viene davvero contornato dai pixell d’autore, vivendo un’esperienza diversa e forse sorprendente.
L’apripista che ha messo in evidenza la peculiarità di questo nuovo prodotto è stata la società australiana Grande Exhibitions, che dal 2015 ha portato in giro per il mondo Van Gogh Alive, la prima “experience” sbarcata anche in numerose città italiane.
Centinaia di quadri del pittore olandese sono fluttuati sulle pareti e sui supporti allestitivi di grandi spazi espositivi, quali la chiesa di Santo Stefano al Ponte a Firenze, e il successo riscontrato è sempre stato sorprendente. Durante il corso di questo anno Van Gogh Alive è arrivata a Roma, a Palazzo degli Esami, dove sono stati staccati più di 150.000 biglietti. Se pensiamo che nell’anno 2016 la decima mostra più visitata in Italia ha attratto 146.000 visitatori, e che tale mostra era anch’essa un’immersiva (“David Bowie Is”, realizzata a Bologna), possiamo avere un’idea di quanto questo genere di esposizioni stia impattando il mercato.
Dopo il successo clamoroso di Van Gogh Alive le mostre multimediali si sono susseguite rapidamente. Nel 2016 le principali esposizioni di questo tipo sono state David Bowie Is, Incredible Florence e Uffizi Virtual Experience. Quest’anno invece si è verificato il vero e proprio boom con le varie Caravaggio Experience, Klimt Experience, Dalì Experience, Da Vinci Experience, Chagall. Sogno di una notte d’estate, The Adventures of Alice, Van Gogh ‘The immersive experience’, Carne y Arena (realizzata dal regista premio oscar Inarritu) e ultima in ordine di tempo Magister Giotto. Tutte mostre di grande (Klimt Experience e Caravaggio Experience) o discreto successo.
Come si può notare gran parte delle mostre ha utilizzato un “nome altisonante” della storia dell’arte per destare l’attenzione del pubblico, e ciò non sembra una casualità.
Dalle ricerche Istat e da quelle della Fondazione di Venezia apprendiamo che il numero di mostre temporanee dedicate ad artisti moderni o antichi è progressivamente diminuita di pari passo alla diminuzione delle risorse economiche disponibili in questo settore, mentre è aumentata a dismisura la quota di mostre dedicate ad opere di arte contemporanea.
Il perché è di certo da ricercarsi nel minor costo che quest’ultimo tipo di opere richiede per essere prestato e assicurato, ed è chiaro che le mostre multimediali hanno invece potuto puntare su artisti come Van Gogh e Klimt proprio perché hanno completamente depennato dai costi di organizzazione la voce relativa ai prestiti, rimpiazzata da quella relativa ai diritti di riproduzione, di gran lunga meno onerosa.
E la riduzione dei costi che una mostra multimediale comporta di certo non finisce qui: si pensi a quanto meno dispendioso sia occuparsi del trasporto di proiettori senza alcun valore artistico rispetto a quadri dal valore di milioni di euro, si pensi poi anche a quanto si possa risparmiare nella messa in sicurezza delle opere all’interno della mostra.
Le mostre multimediali immersive si presentano dunque come una grande occasione per generare facili profitti, arrivata per giunta in un momento propizio visto che i consumi culturali sono in crescita e i privati sono i più propensi ad investire. Ma proprio quando tutto sembrerebbe spingere per una loro prossima definitiva affermazione, vanno registrati i pareri negativi di chi, nostalgicamente, di fronte alle mostre senza quadri storce il naso.
Artribune, prestigioso quotidiano on line nonché rivista cartacea, ha da tempo intrapreso un’analisi approfondita della questione chiedendo a intervistati d’eccezione il loro parere sul nuovo format espositivo: c’è il critico d’arte Fabrizio Federici, che parla di “paradosso della chiesa fiorentina di Santo Stefano al Ponte, in cui l’arte reale dello spazio sacro è regolarmente annichilita dall’arte riprodotta delle mostre multimediali che vi si tengono”, e c’è Bruno Di Marino, professore all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, che per spiegare le “mancanze” di questo genere di mostre ricorre alla famosa “perdita dell’aurea” dell’opera d’arte teorizzata da Walter Benjamin all’alba della rivoluzione cinematografica.
La riproduzione per forza di cose sottrae a qualsiasi elemento principalmente la caratteristica dell’unicità, quella caratteristica per cui nel corso della storia le opere dell’ingegno umano hanno fatto consumare le suole di trillioni di scarpe, ai piedi di pellegrini desiderosi di incontrare la storia.
C’è da chiedersi però, date queste considerazioni, come mai non sia insorto nessuno quando le stesse opere d’arte venivano riprodotte in gigantografie sparse per ogni metropoli del mondo nei ciclici periodi in cui la loro esposizione fisica veniva pubblicizzata per mezzo dell’immateriale.
Dov’erano i cultori dell’aura quando “La Ragazza con l’orecchino di perla” trovava una smaterializzazione al cinema in un film campione d’incassi o per le strade di Bologna, nella cartellonistica indicante la mostra che la esponeva? Dov’erano i cultori dell’unicità dell’opera quando Piero Angela prima e Sky Arte dopo mettevano in mostra riproduzioni televisive di antichità e quadri?
Bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che il successo delle mostre multimediali è la diretta conseguenza dell’arte divenuta brand, e che profitto economico e unicità dell’opera sono un connubio impossibile. I consumi sono cambiati, non certo nell’ultimo decennio. L’arte vi si è adattata, non certo grazie alle mostre immersive.
Valerio Santori
(twitter: @santo_santori)