Giulia del Rosso è una Social Media & Digital Communication Specialist. Toscana d’origine e nomade per inclinazione, Giulia afferma quotidianamente – con la sua vita e le sue scelte – i principi del femminismo: è una donna libera, indipendente ed estremamente competente nel suo lavoro.
Dalla gestione delle pagine social del Centro Antiviolenza Libere Tutte e dell’Associazione 365giornialfemminile fino al suo progetto “Connesse”, Giulia apre una nuova breccia nei social per parlare di parità di genere, di femminismo e patriarcato. O, più semplicemente, per parlare di donne. La comunicazione digitale arriva anche in quegli ambiti che concettualmente potrebbero sembrare chiusi o da escludere per la narrazione social. Invece, di violenza di genere se ne deve parlare, con tutti i mezzi, e quello dei social è un mezzo potentissimo, soprattutto per fare informazione.
Se ci pensiamo bene anche i primi movimenti femministi hanno sfruttato tutti i canali che avevano a disposizione all’epoca per diffondere il loro pensiero. Credo che dovremmo iniziare col chiederci: perché siamo dovute ricorrere ai social? Perché non abbiamo la possibilità di accedere a questa rivoluzione culturale sui Media tradizionali? Si insiste con il preconcetto che i social media (in particolare Instagram) debbano essere utilizzati solo per tematiche leggere e superficiali, una sorta di gerarchia culturale che non metabolizza e non accetta le potenzialità e le implicazioni sociali di un nuovo strumento: si crea un cortocircuito tra un messaggio di estremo valore sociale ed i canali tradizionali (TV, Radio, Carta stampata) che non si fanno portatori attivi di tale messaggio. Per questo femminismo, antirazzismo, ambientalismo, diritti LGBT+ hanno trovato nel web e nei social (l’unico) terreno fertile di diffusione di idee ed iniziative.
Gestisci la pagina del Centro Antiviolenza Libere Tutte e l’Associazione 365giornialfemminile. Gestire un “cliente” come questo significa farsi carico di una responsabilità importante. Qual è stato il tuo approccio?
«Il mio primo approccio è stato estremamente analitico: dovevo capire come strutturare al meglio tutte le informazioni, quali post erano stati pubblicati fino a quel momento, cosa potevamo migliorare…quando rilascio un contenuto qualsiasi sul web, in quanto social media manager, ho sempre la responsabilità di quello che scrivo e dell’immagine dei miei clienti, per questo insisto molto sulla programmazione, sulla condivisione e la comunicazione tra me e l’altra parte».
C’era qualcosa che ti spaventava o ti entusiasmava di più?
«Avevo paura di esagerare. Il mio impegno con i loro canali è quello di non allontanarmi troppo dai loro obiettivi principali: sostenere le loro iniziative contro gli stereotipi di genere, dare maggiore eco alle attività di autofinanziamento e soprattutto essere un riferimento immediato per le donne che scappano da situazioni di violenza. Un femminismo troppo sicuro di sé ed urlato temo possa far sentire una donna che vive una situazione di estrema fragilità emotiva, ancora più reticente ad affidarsi al Centro Antiviolenza. Cerco di puntare molto sul trasmettere comprensione ed accoglienza: contatti facili da trovare, frasi brevi, parole semplici (per essere facilmente fruibili anche dalle straniere), colori tenui ed immagini evocative… creo un “luogo” sicuro per anticipare quello che troveranno nel Centro Antiviolenza. Quello che mi entusiasma e che mi anima è la speranza di fare la differenza, di far sentire una donna meno sola, di ricordarle che può essere tutto quello che vuole per essere felice».
Raccontare le donne. Ci siamo sempre domandate come vivessero le donne di un’altra religione, a km di distanza da noi, in altri Paesi occidentali e orientali e abbiamo chiuso gli occhi verso le nostre. Abbiamo raccontato la violenza e la scelta di indossare un burqua e abbiamo chiuso troppo spesso gli occhi verso la violenza di non poter indossare un capo di abbigliamento senza sentirci definire “troie” o, al contrario, “puritane”. Secondo te perché l’abbiamo fatto?
«Non potrebbe potrebbe essere altrimenti se siamo cresciute in una società che ti definisce in base al tuo Genere, che decide per te quello che dovrai essere per venire accettata dalla comunità, una società impregnata della cultura dello stupro, che legittima la molestia verbale, che riconosce alle donne un ruolo marginale nella società, che non crede alle donne vittime di violenza e che le rende doppiamente vittime addossandogli la responsabilità di qualcosa che hanno subito. Se ti viene detto da tutta la vita che la tua rispettabilità viene definita dalla lunghezza della gonna, alla fine finisci per crederci. Per questo motivo parlare ancora di femminismo e parità è vitale: dobbiamo dare voce ai nuovi valori, dobbiamo permettere che le generazioni future si sentano libere dalla pesantezza del patriarcato. Il femminismo ci aiuta a sviluppare uno sguardo critico verso le convenzioni sociali più radicate, ci spinge a chiederci dei perché, e sviluppa in noi la maturità intellettuale di cui abbiamo bisogno per dire basta ai pregiudizi».
Andiamo adesso dalla violenza alla rete, nella doppia accezione di rete come spazio web che, letteralmente, come “fare rete”. Parliamo di Connesse, che è un altro modo di raccontare le donne.
«Innanzitutto, “Connesse“ è un progetto che ho fortemente voluto, sia per creare dei contenuti utili per una presenza sui social orientata al business più efficace (è comunque il mio lavoro), ma anche per diffondere un messaggio di collaborazione e cooperazione: sfatiamo il falso mito che le donne non sappiano lavorare insieme e che siano divorate dalla reciproca invidia. Nella prima edizione ho ospitato LIVE sul mio profilo Instagram 7 donne, nella seconda 3: tutte diverse tra loro, sia per competenze che per percorso sui social. Abbiamo affrontato diverse tematiche: dalla strategia per un nuovo brand agli aspetti legali (sono tutti salvati tra i miei IGTV). Sono contenuti davvero validi per chi vuole scoprire di più sui social media o se ha un’attività da promuovere e mostrano la competenza di donne che meritano davvero di essere ascoltate. Non nego che si tratta anche di una strategia di crescita per il mio lavoro. Ma il punto è questo: io voglio farmi conoscere sia per come lavoro che per i valori in cui credo e per come cerco di renderli concreti. Questa propensione al fare rete tra donne è parte di me, sono felice di poterla canalizzare in modo costruttivo».
Perché le donne “devono” fare rete e gli uomini no?
«Penso che le donne siano state più brave nel realizzare questo tipo di collaborazioni, non tanto sul risultato finale del contenuto, ma nel fare del loro essere donne il motivo di sorellanza ed unione. Forse dobbiamo fare rete perché ne abbiamo bisogno, come società, come professioniste e come persone. Viviamo in un’epoca in cui per legge, in teoria, abbiamo ottenuto la parità, ma che nella pratica vede le donne discriminate e trattate come cittadini di serie B. Basta leggere qualche report sul Gender Gap, sulla percentuale di donne costrette a lasciare il lavoro per la maternità. Dobbiamo fare rete perché ogni rivoluzione è più facile se non si è da sole. Forse siamo state più brave degli uomini in questo, per istinto di sopravvivenza».
Quanto è lontana la parità secondo te?
«Dipende… se dobbiamo parlare in generale ancora molto lontana. Ci sono delle abitudini, delle consuetudini, degli atteggiamenti ancora molto radicati. Ho però abbastanza fiducia nella nuova generazione, che si dimostra più sensibile ed educata a questi temi. Sono fortunata perché ho vicino a me un uomo meraviglioso e femminista, non sentiamo il peso dei ruoli di genere nella gestione quotidiana. Nel lavoro invece ho faticato molto, in quanto giovane donna in un settore ancora poco compreso e sottovalutato: è stata una salita, soprattutto quando ero sempre dipendente e venivo trattata con sufficienza. Venivo chiamata la “Bimba dei social”, che avevo Laurea e Master non era rilevante. Mi hanno detto “Grazie tesoro, sei un angelo” quando ho risolto un problema ad un cliente. Mi hanno chiesto se ero “Signora o Signorina” prima di una riunione importante, quando avrebbero dovuto chiamarmi Dottoressa. Ho imparato a presentarmi in un certo modo, a stringere la mano in un certo modo, a mantenere lo sguardo, a pormi con professionalità. Mi sono obbligata ad uscire dalla mia comfort zone perché per ogni frase idiota ricevuta, mi sentivo ancor più motivata a raggiungere gli obiettivi. Ci sono voluti anni per farmi trattare come merito dai miei clienti (non tutti eh, ci sono delle eccezioni positive), ma ho potuto raggiungere questo traguardo solo dimostrando i risultati col mio lavoro. Se ci si pensa, questo è profondamente ingiusto. Credo che i cambiamenti li possiamo fare più con i piccoli gesti quotidiani che con le grandi parole. La parità la possiamo raggiungere se iniziamo, ogni giorno a pretendere una narrazione diversa e rispettosa delle donne».
La Redazione