Napoli città rinata, attraverso le sue stazioni metro dell’arte, oggetto di ammirazione da parte dei turisti, è caduta di nuovo nella sua trappola buia: è stato rubato il “cappello” dell’artista deceduto il mese scorso, Jannis Kounellis.

Il furto è avvenuto alla Stazione metropolitana di Piazza Dante, nel cuore pulsante della città partenopea, dove migliaia di persone transitano ogni giorno: tra turisti, studenti e lavoratori, tutti si sono incamminati attraverso le opere di questo artista, prima di varcare le rampe che conducono all’uscita della stazione. Un gesto miseramente povero, come povera era l’arte di Kounellis. Un’arte che guardava al linguaggio palpabile delle realtà che ci attraversano quotidianamente dove gli oggetti, i vestiti, le scarpe, i cappelli, le valigie impolverate diventano arte; tutto quello che attraversa le nostre vite, il disordine apparente della materialità e lo spazio in cui essa è organizzata, si inserisce in un quadro senza tela. Il tempo, il movimento, lo spazio, gli oggetti dell’uomo sono i protagonisti delle opere di Kounellis che votano alla libertà, alla ricerca della rivoluzione interiore che abbatte i limiti imposti dalla tradizione e l’arte diventa il palcoscenico della vita, esce dal quadro, si compenetra con il pubblico, quasi si mescola, si libera della centralità del suo ruolo imposto e diventa ideologia, diventa critica del mondo empirico.

Kounellis inserisce la sua arte nella giungla della comunicazione umana fatta di segni, numeri, scritte ed oggetti di uso comune, alla costante ricerca di un’innovazione visiva che possa esplodere e portare chi guarda alla riflessione critica della vita contemporanea, dominata dallo spazio e dal tempo in cui confluiscono i fiumi profondi dei movimenti, degli incastri, delle maledizioni umane che riecheggiano il sacrificarsi dell’uomo, la rivoluzione industriale, la rivoluzione femminile. In questo artista greco, in cui l’arte diviene una narrazione poetica si “dipingono” sulla sua tela, come su di un palcoscenico,  nelle fibre profonde di lino, canapa o juta  che tessano gli organi in cui si svolge la vita degli uomini, in una continua dialettica con lo spettatore che si riconosce nei segni, negli indumenti, nei colori urbani dell’opera, oltrepassando la linea di demarcazione tra l’arte che è sul palcoscenico e gli occhi della platea.

Kounellis, amava la povertà di Napoli, la veridicità umana della città, forse amava di più la sua gente che, scevra dall’inconsueta grandiosità, si muove nella tessitura del suo quotidiano, che si prostra al lavoro, alle dinamiche frenetiche della contemporaneità. L’opera che l’artista ha regalato alla stazione Dante ha il nome di “Senza titolo” e vede protagonisti tra le rotaie del treno che cingono, quasi come  in un abbraccio stretto, i cappotti, le scarpe consumate dall’uso, i cappelli, gli indumenti, i treni giocattolo che sono appesi alla parete come quadri. Tutta questa materialità appare consumata, deteriorata dal tempo che passa nel continuo dinamismo dell’uomo contemporaneo che incede nelle sue complicazioni.

I viaggiatori che transitano vengono avvolti dall’opera, la possono toccare sentendola viva e stupirsi di quanto quegli oggetti intrappolati, riflettano la loro stessa condizione esistenziale, riflettano il tema del viaggio. Il movimento, il caos, l’incertezza del viaggio rivivono negli oggetti e anche in quel cappello, che come gli altri indumenti appariva, sporco e  deteriorato,  a simbolo della Napoli opulenta di lavoro e sacrificio, rubato da chi sa chi.

Annalisa Cocco

Quotidiano indipendente online di ispirazione ambientalista, femminista, non-violenta, antirazzista e antifascista.

1 commento

  1. Articolo degno del grande Kounellis, complimenti, molto bello. Lo faranno rivoltare nella tomba, grandissimo genio dell’arte povera.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui