“Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta.”
Indro Montanelli
118 vittorie in Serie A dal 1942 al 1949, 5 scudetti vinti consecutivamente di cui l’ultimo, tragicamente, a tavolino per decisione della FIGC. Record di partite in casa senza sconfitte (88) e di marcature in un campionato (125), a cui va aggiunto anche quello di gol segnati in una singola partita, ben 10 alla povera Alessandria nel 47/48. Per rispettare e ricordare, a 70 anni da quel drammatico 4 maggio, il leggendario Grande Torino bisogna prima conoscerlo.
E per conoscerlo bisogna partire dall’estate del 1939, quando Ferruccio Novo assunse la presidenza del Torino e riformulò la struttura societaria affinché somigliasse a quelle delle squadre inglesi, con diversi collaboratori di grande esperienza, come Antonio Janni, che gli suggerì il primo grande acquisto: il diciottenne Franco Ossola del Varese. La prima rivoluzione del Torino fu quella di abbandonare il “metodo” che tanto bene aveva fatto all’Italia di Pozzo, per adottare il “sistema” ideato da Herbert Chapman per il suo Arsenal, o più semplicemente un 3-2-2-3. I granata, con Cargnelli e Kuttik allenatori, si videro sfuggire lo Scudetto del 41/42 per soli 3 punti, a causa anche della doppia sconfitta contro il Venezia di Loik e Mazzola.
Mentre la Roma di Amedeo Amedei si godeva il titolo, Ferruccio Novo pensò di strappare al Venezia proprio le loro punte di diamante, così Ezio Loik e Valentino Mazzola vennero acquistati, assieme a Grezar della Triestina. Nonostante la rosa di grandissima caratura, il Torino ebbe parecchie difficoltà nel contenere la sorpresa Livorno. I toscani tennero testa al Torino di Kuttik fino alla ventisettesima giornata, e chiusero ad un solo punto di distanza dai granata, per i quali fu decisivo il gol di Valentino Mazzola all’ultima giornata contro il Bari per mantenere la vetta e laurearsi Campioni d’Italia 42/43 per la seconda volta nella sua storia, dando così inizio ad una vera e propria leggenda.
Dopo i due anni di pausa per via della Seconda Guerra Mondiale, il Torino si rafforzò con Bacigalupo e Rigamonti e si giocò il titolo fino all’ultima giornata contro la Juventus di Piola, superata alla penultima proprio nel derby di Torino grazie ad un gol di Gabetto. Dal 1946 il Torino iniziò a passeggiare sulle avversarie in campionato, tanto che venne creato il cosiddetto “quarto d’ora granata”: quando l’avversario non era al livello dei padroni di casa, il Torino giocava volutamente a ritmi bassissimi fin quando dalla tribuna dello stadio Filadelfia non partivano tre squilli di tromba. Da quel momento, quando Valentino Mazzola si rimboccava le maniche, il Torino risolveva la partita in 15 minuti. Clamoroso in tale senso fu l’episodio del 28 aprile del 1946, in casa contro la Roma, quando il Torino segnò 7 reti in un quarto d’ora.
Grazie agli arrivi di Romeo Menti e dell’allenatore Ferrero, il Torino concluse il campionato 46/47 con 104 reti segnate, una media di quasi tre gol a partita e 10 punti di distacco dalla Juventus, con una devastante serie da 16 risultati utili consecutivi. La dimensione raggiunta dal Toro e dai suoi giocatori fu tale che nella primavera del ’47 la formazione titolare della Nazionale, contro l’Ungheria di Puskas, fu composta per 10/11 da giocatori del Torino e con il solo Sentimenti IV proveniente dalla Juventus.
I granata, con Mario Sperone allenatore, si presentarono un po’ in sordina al più lungo campionato di Serie A mai disputato: quello del 1947/48, con ben 42 turni giocati e 21 squadre. Il Milan di Bigogno cercò di tener testa ai granata e conservò la prima posizione fino alla 26esima giornata, quando poi i granata inanellarono una serie di 13 vittorie interrotta solo da uno 0-0 contro la Triestina, rifilando ai rossoneri ben 16 punti di distacco. Il campionato del 1948/49 vide i granata soffrire inizialmente la concorrenza di Lucchese e Genoa, con il quale terminarono il girone d’andata a pari merito. Ma il Grande Torino si rimise nuovamente a marciare sulla concorrenza nel girone di ritorno e tenne testa agli attacchi dell’Inter fino allo scontro diretto di San Siro del 30 aprile, terminato 0-0.
La squadra allenata dall’inglese Lievesley venne invitata da Francisco Ferreira, capitano del Benfica e del Portogallo, a disputare un amichevole il 3 maggio 1949 in quel di Lisbona, in accordo comune tra lui e Valentino Mazzola, capitano del Torino, con il quale aveva stretto amicizia a Genova nel febbraio dello stesso anno dopo la partita tra Italia e Portogallo. La squadra più amata e rispettata al mondo partì verso Lisbona senza Mauro Tomà, Renato Gandolfi, il capitano del Torino Primavera Luigi Giuliano e il presidente Novo. La partita della “Coppa Olivetti” vide i lusitani imporsi per 4-3 sui granata in quella che fu una vera e propria festa di sport ed un omaggio per Chico Ferreira, che da lì a poco tempo si sarebbe ritirato.
Il 4 maggio, i granata, a bordo del trimotore Fiat.G212, partirono da Lisbona in direzione Barcellona, per poi ripartire verso il capoluogo piemontese. All’arrivo in Piemonte, la torre di controllo avvertì i piloti delle condizioni meteo avverse, con fitta nebbia, libeccio e rovesci di pioggia, che riducevano notevolmente la visibilità. Forse ingannati dall’altimetro, forse per via delle forti raffiche di vento, i piloti non si resero conto di avere la basilica di Superga davanti al loro cammino. L’impatto avvenuto alle 17:03 uccise i 31 passeggeri dell’aereo. All’allenatore della Nazionale Pozzo fu chiesto di riconoscere le salme dei giocatori che per anni avevano fatto parte della Nazionale Italiana, affinché si potessero celebrare i funerali della più grande squadra che la cultura italiana e mondiale ricordi. Il 6 maggio erano quasi un milione le persone in piazza, accorse per dare l’ultimo saluto al Grande Torino. Il presidente della FIGC Ottorino Barassi assegnò a tavolino il titolo alla squadra, che concluse il campionato giocando con i ragazzi della primavera. La risonanza dell’evento fu tale che la Nazionale del Mondiale 1950 decise di partire verso il Brasile in nave, anziché in aereo, ed il River Plate decise di sfidare un Torino “Simbolo”, composto da 11 stelle del campionato italiano, in un’amichevole il cui incasso venne devoluto interamente alle famiglie colpite dalla tragedia.
A 70 anni da Superga, ora Belotti e compagni giocano in uno stadio intitolato alla più amata, temuta e rispettata squadra che mai abbia calpestato un rettangolo di gioco. La risonanza di ciò che il Grande Torino ha rappresentato continua tutt’oggi a caratterizzare il calcio italiano, ben oltre la semplice commemorazione annuale. Il Torino di Ferruccio Novo è stata tra le più belle storie di calcio che siano mai state viste e raccontate, ed anche oggi, a 70 anni da quel 4 maggio, continuiamo a credere che Mazzola e compagni siano solo “in trasferta”.
Andrea Esposito
fonte immagine in evidenza: torinotoday.it