Si può provare a ignorare, ma a un certo punto succede che l’angoscia prende il sopravvento. E insorge allora la necessità di parlare, di comunicare, di esprimere. Forse anche troppo: è da oggi che non si parla d’altro, non si parla che di lei, della giovane Noa Pothoven, della scelta di lasciarsi morire. Non si è trattato di eutanasia, adesso è chiaro: ma la sua vicenda, l’intera storia della sua vita richiederebbe un perdono semplicemente troppo gravoso per un essere umano.
Apprendo brandelli di notizie seghettati qua e là. Il caso fa clamore, quasi più in Italia che in Olanda, dove tutto è avvenuto. È strano, è surreale apprendere della morte di Noa, in questo modo lo è ancora di più. Una ridda caotica di prime pagine e titoli, smentite, precisazioni, rettifiche, dichiarazioni. L’intimità di uno strazio diventa un caso mediatico, ancora una volta. E la mente corre a ritroso verso Eluana Englaro, verso DJ Fabo, verso il dibattito mai realmente consumato sull’eutanasia e sulla regolamentazione del fine vita. Eppure sarebbe stato così semplice: sarebbe bastato dire che ci dispiace. Tutto qua.
Cosa aggiungere, del resto? C’è una bambina violentata due volte nel giro di due anni, un dramma esistenziale vanamente trascinato per sei anni, una richiesta negata di eutanasia e la decisione finale, lasciarsi morire d’inedia, negli stenti, nella sofferenza che pone fine a una sofferenza più grande. C’è la baraonda di inesattezze, l’ansia dello scoop, l’assenza di ogni ritegno. E davvero non so decidere quale fra questi rechi il dolore peggiore, la vergogna più devastante. Troppo ghiotta l’occasione di parlare di una minorenne che ricorre all’eutanasia, avrà pensato qualcuno. Di certo non lo avrà pensato Noa Pothoven, quando ha scelto.
E non oso immaginare cosa possano essere stati per lei quegli anni di convivenza col dolore. È una vita che smette di essere vita, si trasforma in altro, pur mantenendone l’apparenza burocratica. Una formalità per i registri, nient’altro. Poi angoscia, disperazione, depressione. Un assassinio consumato giorno dopo giorno, sebbene le carte magari parleranno di “stupro”. Ma Noa Pothoven è morta quel giorno, non è difficile da comprendere, per cui non c’è differenza tra la violenza carnale e l’omicidio; in quanto tale la responsabilità andrebbe valutata. Ma sarebbe irrispettoso, adesso, soffermarsi su questo.
C’è un silenzio da rispettare, quello delle anime; e c’è un perdono da accogliere, quello della separazione. Provo a concretizzare nella mia mente l’enormità della scelta di Noa, ma non ci riesco. Non è possibile. Ed è questo a convincermi ancora di più di una cosa: ognuno ha il sacrosanto diritto di decidere della propria esistenza. Che il Vaticano parli di una perdita per l’umanità, che i giornali scrivano quello che gli pare. Nessuno può comprendere, dunque nessuno può giudicare. Eutanasia, in fondo, vuol dire anche questo: accettare il limite dell’umana comprensione nelle scelte che riguardano la vita altrui. È il massimo a cui possiamo ambire, e tanto è sufficiente.
Quanto al resto, forse non cambierà nulla. I riflettori si spegneranno, le voci si accheteranno. La speranza di adottare anche in Italia una normativa moderna, aperta, progressista sull’eutanasia resterà la pallida ambizione di un istante, l’ennesimo, e il volto di Noa Pothoven resterà quello di un perdono impossibile, meraviglioso perché contiene in sé l’essenza più autentica dell’umanità. E noi ci limiteremo a stringerci nel petto e a fare nostri per un po’ i versi di Ungaretti: La morte / si sconta / vivendo. Quant’è vero.
Emanuele Tanzilli
Non ho capito il senso della frase “la sua vicenda, l’intera storia della sua vita richiederebbe un perdono semplicemente troppo gravoso per
un essere umano”.
Di cosa avrebbe dovuto chiedere perdono Noa?
Gentile Signor Mauro, ciò che volevo intendere è che sarebbe stata Noa a dover perdonare, non viceversa. Ma in alcuni casi è semplicemente impossibile: e provo soltanto rispetto per questo. Mi spiace averLa indotta in confusione.
Buongiorno, Emanuele.
Una piccolo appunto sulla frase dell’articolo, che mi ha colpito particolarmente: “sarebbe bastato dire che ci dispiace, tutto qua”.
Premetto che mi trovo d’accordo con l’eccessiva eco sulle testate più note, che aveva il duplice scopo di aprire la strada all’ennesimo dibattito sulla questione (fuori luogo, mentre sarebbe stato più azzeccato un dibattito sulle tragiche conseguenze dell’abuso sessuale, affrontato in solitudine, come ha fatto Noa) e di creare lo scoop (vedi inesattezze, non verificate preliminarmente).
Non sono d’accordo però sul “liquidare” la questione con un “mi dispiace”, in quanto non si può giudicare (cosa che si fa troppo spesso, anche nella semplice vita quotidiana), perché comunque sia un giornale ha il compito di fare riflettere su un qualcosa, secondo le proprie linee editoriali (anche Lei sta facendo riflettere noi lettori), e più in generale l’ esprimere un opinione su una scelta del genere – sia a favore, sia contro- non significa giudicare, ma è sacrosanto, come l’autodeterminazione. La mia opinione per esempio è che Noa, al contrario dell’ apparenza autodeterminante, non fosse libera in se stessa di prendere una decisione così estrema, a motivo della sua psiche così gravemente compromessa, anche biochimicamente. Ma ciò non significa che la povera sventurata abbia fatto qualcosa di cui deve chiedere perdono. Mi fa male che si sia autodistrutta Lei, piuttosto che distruggere chi Le ha fatto del male.
Ad ogni modo, la cosa non ha lasciato indifferente nessuno di noi.
Grazie.